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Testi ed immagini liberamente tratti dal lavoro e dalle passioni di tanti concittadini.
Un ringraziamento particolare va a:

                         

 

I principali monumenti di FerentinoLa Città di Ferentino è situata su una collina che domina la Valle del Sacco, a 393 metri sul livello del mare. Arroccata su di un colle che domina la vallata del fiume Sacco (l’antico Trerus), è crocevia sia nella direttrice Nord-Sud, tramite l’antica Casilina (SR6) e la moderna Autostrada del Sole (A1), che Est-Ovest, tramite l’Anticolana (SS155) e la Superstrada Ferentino – Sora – Avezzano (SR 214).
Su una superficie di 80,48 km², risiedono circa 24.000 abitanti. Il Comune comprende la frazione di Porciano, situato a circa 15 km dal centro di Ferentino sulle pendici dell’omonimo monte e nei pressi del lago di Canterno, rinomato per l’aria salubre e la produzione di ottimo formaggio pecorino. Degni di nota sono il castello medievale (Castrum Porciani) e il santuario della Madonna della Stella.
Ferentino confina con Acuto, Alatri, Anagni, Fiuggi, Frosinone, Fumone, Morolo, Sgurgola, Supino, Trivigliano.

 

Indice

Ferentino in breve
Storia di Ferentino
Santa Maria Maggiore
San Giovanni e Paolo
Il seminario vescovile
La scuola femminile
Sant’Ambrogio Martire
Papa Celestino V
Madre Caterina Troiani
Don Giuseppe Morosini
Altri illustri ferentinati
Cartoline da Ferentino

 

Di origine sicuramente Volsca, è stata conquistata dai romani intorno al 400 a.C., poi donata agli Ernici. Ritornata successivamente sotto il dominio romano nell’ultimo secolo della Repubblica in età imperiale, la città visse momenti di pace e prosperità.

 

« Si te grata quies et primam somnus in horam delectat si te pulvis strepitusque rotarum, si laedit caupona, Ferentinum ire iubebo; nam neque diventibus contingunt gaudia solis… »

« Se ti piace la tranquillità ed il sonno fino al levar del sole, se ti infastidiscono la polvere e lo strepito dei carri e le osterie, ti consiglierei di andare a Ferentino; infatti, non ai soli ricchi è dato di godere… »
(Orazio, Epistole I, 17 vv 6-9)

 

Le origini di Ferentino sono antichissime ed avvolte nel mito: la leggenda ne ascrive la fondazione al dio Saturno che, scacciato dall’Olimpo, si insediò in questo territorio ubertoso, ove fondò città e diffuse le arti e le tecniche. A testimonianza della fondazione, antecedente a quella di Roma di almeno 300 anni, rinveniamo le mura ciclopiche: cinta composta da blocchi di pietra (di volume anche superiore ai 25 metri cubi) posati a secco e ad incastro a formare un fortificazione lunga circa 2.500 metri, comprendente 12 porte. L’etimologia stessa del nome Ferentinum (participio presente del verbo latino fero: produrre) fornisce una idea precisa riguardo alla fertilità del luogo e all’ingegnosità delle gente che lo abitava.

Fra il VI e il IV secolo a.C. Ernici, Volsci e Romani combatterono aspre battaglie per il possesso della zona: Roma trovò in Ferentino dapprima una fiera avversaria e in seguito una fedele alleata, avendo dato natali anche ad illustri personaggi, primo fra tutti Aulo Irzio, luogotenente di Giulio Cesare, conquistatore e governatore della Gallia, console romano e scrittore.

Risalgono al periodo romano il Mercato Coperto, l’Anfiteatro, il Testamento di Aulo Quintilio Prisco, le tracce delle antiche terme, i resti dell’acquedotto e del basolato stradale della via Latina.

Per via degli elementi di incipiente cristianità già in epoca romana (vedi il martirio nel 304 del centurione Ambrogio, poi patrono), la società ferentinate dell’Alto Medioevo ospitò numerose diocesi e luoghi di culto: la Cattedrale dedicata ai Santi Martiri Giovanni e Paolo, edificata sui resti di un antico tempio pagano e di una precedente chiesa cristiana, integralmente pavimentata a mosaico, risale al 1108; dello stesso periodo è anche l’abbazia gotico cistercense di Santa Maria Maggiore, prototipo per la costruzione della Abbazia di Fossanova.

Al Basso Medioevo risale il Monastero di Sant’Antonio Abate fondato da Celestino V, che ospitò le sue spoglie prima che fossero traslate nella vicina chiesa di S. Agata, dalla quale poi furono trafugate verso l’abbazia di Collemaggio. A Ferentino resta tuttavia il cuore di Celestino, custodito presso il monastero delle suore Clarisse: in onore del Santo, compatrono della città, si celebra ogni anno il tradizionale palio, o giostra dell’anello.

Dal 1198 al 1557, Ferentino fu il capoluogo delle provincie di Campagna e Marittima (ovvero il Lazio meridionale) grazie a papa Innocenzo III che ne fece sua sede privilegiata. Molti ordini religiosi si stabilirono allora a Ferentino, fondando chiese e monasteri: Benedettini, Cistercensi, Francescani, Clarisse, Carmelitani, Celestiniani, Domenicani, Cavalieri Gaudenti, Cavalieri di Malta e Templari.

Ferentino fu uno dei primi liberi comuni italiani, dotato già a partire dal XII secolo di un suo proprio statuto. Federico II di Svevia soggiornò più volte da giovane a Ferentino e, ironia della sorte, subì la propria definitiva sconfitta proprio ad opera di condottiero ferentinate, Gregorio da Montelongo, legato pontificio, nella battaglia di Parma del 1248.

Grazie a Martino Filetico Ferentino conobbe i fasti dell’Umanesimo, mentre in seguito fu teatro dell’assedio vinto dalle truppe spagnole guidate dal Duca d’Alba (1556), della fondazione di un ampio distretto artigianale (1740-1800) durante la prima rivoluzione industriale, delle lotte fra Sanfedisti e Giacobini (1798-1802), e del passaggio di Garibaldi. Importanti furono i bombardamenti subiti durante la Seconda guerra mondiale, in quanto retrovia del fronte di Cassino e snodo stradale strategico, e l’istituzione di un centro di accoglienza per gli sfollati, valsi la Medaglia d’Oro al Valor Civile.

Nel corso degli anni ’60 e ’70 il territorio ferentinate è stato oggetto di una forte industrializzazione per via delle agevolazioni permesse dai piani statali di sviluppo: l’economia del luogo, precedentemente fondata sull’agricoltura (coltivazioni di lino, vitigni ciociari, produzione di olio d’oliva) e sull’artigianato (battitura del rame, tessitura del lino, scope di saggina, intreccio del vimini e del vinchio, cotto fatto a mano), è stata convertita ad attività in quasi tutti i settori, principalmente farmaceutico e plastico.

 

La Città di Ferentino ha ricevuto l’onorificenza della Medaglia d’oro al Merito Civile come “centro strategicamente importante per il collegamento tra la S.S. Casilina con Cassino, durante l’ultimo conflitto mondiale fu obiettivo di ripetuti e violentissimi bombardamenti che procurarono quattrocento vittime civili e la quasi totale distruzione dell’abitato. Le Comunità religiose locali offrivano poi un’ammirevole prova di generoso spirito di solidarietà, prodigandosi in aiuto di numerosi fuggiaschi e di quanti volevano intraprendere, con gran coraggio e spirito di sacrificio, la difficile opera di ricostruzione

 

Sulla cinta muraria esterna, lunga oltre due chilometri, si aprono ben sei porte principali: S. Agata, Sanguinaria, S. Maria o Maggiore, S. Croce, Montana e S. Francesco.

All’interno della cinta suddetta, si trovano le mura dell’Acropoli, il cui perimetro è pari a 550 metri. Tra le due cinte murarie si ergono dei terrazzamenti in opera poligonale, detti Ieroni, a difesa delle tre porte più importanti della città: Porta S. Agata, Porta Maggiore e Porta Montana.

Percorso interessante è quello di Via Pio IX, un tratto esterno alle mura tra Porta S. Agata e la Sanguinaria, che prosegue poi verso Porta Maggiore. In questo tratto si può ammirare la Posterula – sicuramente anteriore alla porta romana di S. Agata ed oggi chiusa – e la stupenda Porta Pentagonale.

 

Le chiese di Ferentino sono molte e di epoche diverse. Sicuramente la più antica è quella dedicata a S. Lucia (VI secolo), collocata sopra l’Oratorio di S. Biagio, nel contesto delle strutture termali dell’antico Mitreo di Flavia Domitilla, moglie di Vespasiano e madre di Tito e Domiziano.

Splendido esempio di stile gotico-cistercense è la chiesa di S. Maria Maggiore, prima cattedrale di Ferentino. Qui la presenza di una costruzione adibita al culto risale ad epoca paleocristiana: la primitiva chiesa, dedicata alla S.S. Trinità, ha conosciuto una seconda fase costruttiva ad opera dei monaci cistercensi nel corso del secolo XIII.

La chiesa Cattedrale, dedicata ai S.S. Giovanni e Paolo e sita sulla sommità dell’acropoli, fu consacrata nel 1108. Gli interni sono arricchiti dai mosaici dei maestri Cosmati romani del 1200 e da ammirare sono sicuramente il Ciborio del sec. XIII, opera del maestro romano Drudus de Trivio, la colonna tortile del cero pasquale, attribuita al Vassalletto e un quadro della Madonna del Parto, opera attribuita al pittore fiorentino del ‘600, Carlo Dolci.

La chiesa di S. Francesco, splendido esempio di epoca romanica, è di epoca benedettina. Originariamente dedicata a San Sebastiano, nel 1256 fu ceduta ai Frati Minori Francescani, che dovettero ricostruirla ad eccezione del campanile. L’interno presenta una sola navata coperta in parte a volta ed in parte a capriate. Dell’antica costruzione rimane la facciata con lo stupendo rosone a 12 raggi, decorato da colonne tortili e lisce e la Torre campanaria a più ordini.

Nel secolo XIII le Clarisse si insediarono in Ferentino nei pressi di Porta S. Francesco. Il Monastero delle Clarisse nel secolo XVIII venne ricostruito con progetto dell’architetto Giovan Battista Nolli sull’angolo sud-occidentale del terrazzamento dell’ Acropoli. Fu il vescovo Fabrizio Borgia (1729-1754) a promuovere la costruzione, che venne conclusa sotto l’episcopato di Pietro Paolo Tosi (1754-1798), che il 12 ottobre 1760 consacrò la nuova chiesa del Monastero, intitolata come la precedente a S. Chiara. La piccola chiesa conserva il cuore di papa Celestino V. Un piccolo frammento della reliquia venne donato dalle suore al pontefice Pio IX in occasione della sua visita nel 1863.

San Valentino è una chiesa benedettina, in buona parte ricostruita dopo l’ultima guerra, che si trova in piazza Giacomo Matteotti. Assieme a copie di affreschi del Domenichino sulla volta ricostruita – che precedentemente raffigurava un cielo stellato – si trovano affreschi del Duecento raffiguranti una Resurrezione, una Madonna della Misericordia e tre Santi. Pregevole l’abside ed i locali ad essa sottostanti, non danneggiati dalla guerra.

Degne di menzione e di visita sono la chiesa di S. Pancrazio dell’XI secolo, la chiesa di S. Ippolito, di S. Maria dei Cavalieri Gaudenti e quella di S. Giovanni Evangelista.

Il monastero di S. Antonio Abate, in stile romanico, fu fondato da papa Celestino V e ne accolse le spoglie fino al 1327, divenendo così meta di pellegrinaggi. La chiesa venne retta dall’Ordine dei Celestini dal XIII al XVII secolo; in seguito, per penuria di monaci, fu aggregata alla chiesa di Sant’Eusebio a Roma di cui divenne grangia. L’esterno si presenta costituito da una facciata a capanna con portale architravato sormontato da una mera lunetta, una finestra circolare e semplice campanile. È perfettamente visibile il carattere povero dell’architettura, frutto di ristrettezze economiche della committenza: è riscontrabile anche un influsso dell’architettura mendicante ed un recupero della tipologia strutturale cistercense. Vi fu sepolto l’umanista Martino Filetico. La pala d’altare è opera del Giorgini e datata 1829: raffigura la Vergine con Bambino, Sant’Antonio Abate, San Giovanni Battista e Papa Celestino V. Al centro del corpo del monastero vi è un chiostro, intorno al quale si dispongono le camere dei monaci.

La chiesa di Sant’Agata è stata in gran parte distrutta dai bombardamenti del 1944, ma conserva il campanile romanico del XIII secolo e la cripta. Al suo interno espone un Crocifisso ligneo seicentesco di grande valore artistico e spirituale, opera del frate laico Vincenzo Maria Pietrosanti da Bassiano. Attualmente la chiesa è tenuta dai servi della Carità di San Luigi Guanella.

 

Numerosi palazzi appartenuti a casati nobili si affiancano alla maestosità degli antichi monumenti. Nonostante alcuni di loro siano ben conservati (grazie all’interessamento e alla sensibilità dei proprietari) altri hanno subito ben altri destini, vittime del tempo e dell’incuria dell’uomo.

Quasi tutti si trovano sul tracciato della Via Consolare, la strada principale della città, che la taglia letteralmente in due da Porta S. Agata a Porta Montana. Proprio sulla porta S. Agata, sicuramente un ex sito militare a difesa della porta sulla Via Latina, si trova il Palazzo Lucaccini (sec. XIX).

Proseguendo si trova il Palazzo Borgia (sec. XVII), residenza del Vescovo Fabrizio, il Palazzo Lolli-Miccinelli (sec. XVIII), di famiglia imparentata con Papa Pecci, Leone XIII, ed il Palazzo De Andreis (sec. XV) sulla cui facciata si possono ancora ammirare le tracce di antiche botteghe medioevali. Alzando lo sguardo notiamo un balcone costituito da due finestroni con archi romani a tutto sesto, con quattro eleganti colonnine sormontate da capitelli. Sulla ringhiera è ancora visibile lo stemma nobiliare della famiglia.

Successivamente si incontrano il Palazzo Bellà, ora Gabrielli, ed il Palazzo Filonardi-Tibaldeschi, ora Scala-De Simone, purtroppo duramente colpito dal bombardamento dell’ultima guerra mondiale. Sulla Piazza Mazzini, prima della guerra piazza principale e sede del Comune, si ergono il Palazzo Consolare, originario del XII secolo, con la stupenda loggetta costituita da tre bifore, una incorniciata in un arco arabesco e due in archi romanici.

Di origine duecentesca è la Torre Guelfa che affianca il palazzo dell’ex Comune. Sulla stessa piazza altri tre caseggiati hanno visto la storia della città: Palazzo Roffi Isabelli, Palazzo Nolli-Avanzi ed il Palazzo del Governatore.

Proseguendo sulla stessa strada notiamo il Palazzo Pace ed il Palazzetto Medioevale del XII secolo. Subito dopo, il Palazzo Giorgi-Roffi Isabelli del secolo XVI. Al suo interno si conservano decorazioni neoclassiche nella Galleria degli Dei e nel Salotto di Bacco e Cerere. Notevole la collezione epigrafica di Alfonso Giorgi, illustre ferentinate del XIX secolo, dotto cultore di archeologia e valente amministratore civico. La collezione è una delle tre attualmente censite in Ferentino, assieme a quelle del Vescovado e del Comune.

Altro esempio è il Palazzo Montelongo (sec. XIII), sulla cui facciata si notano vari stemmi delle famiglie succedutesi nel corso dei secoli. Attigui, sullo stesso lato della strada, si ammirano il Palazzo del Capitolo della Cattedrale (ormai dismesso), il Palazzo Pagamici (sec. XVIII), il Palazzo di Innocenzo III, dimora del sommo pontefice nei suoi soggiorni in Ferentino tra il 1203 e il 1215, ed il Palazzo dei Cavalieri Gaudenti del XIII secolo. Questi presenta, sul lato prospiciente la Via Consolare, quattro archi (oggi tamponati) sormontati da una cornice marcapiano su cui poggiano tre bifore. Sul lato verso la piazza omonima segue la medesima tipologia costruttiva, con un arco sormontato da una bifora.

In ultimo, prima della Porta Montana, il Palazzo Tani (sec. XV) e il Palazzo Fioravanti-Accoramboni, che troneggia sulle mura ciclopiche della stessa porta. La residenza di campagna della famiglia Tani ancora è visibile, fuori le mura a circa 800 metri, sulla collina di S. Leonardo: la cosiddetta Villa Tani del secolo XVI.

Attiguo alla chiesa di S. Francesco si erge l’ex Convento Martino Filetico, che oggi ospita i Licei Classico e Scientifico.

 

Tra gli altri monumenti, la città conserva ancora un meraviglioso Mercato Romano Coperto ascrivibile al periodo sillano (138-78 a.C.). Si tratta di una struttura adibita alla conservazione di prodotti agro-alimentari e di scambio commerciale: metà della detta area è riservata alla Sala, l’altra metà alle cinque botteghe.
Adiacente alla chiesa di S. Lucia si trova il Teatro Romano risalente al I secolo dopo Cristo, sul quale sono costruite numerose abitazioni, ma che risulta ancora ben individuato dal palco e dalle gradonate.

 

Dal punto di vista naturalistico

 

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Storia di Ferentino.

Storia di Ferentino

Nel 413 a.C. il console Lucio Furio conquistò Ferentino, decidendo di affidare la città ed il suo territorio agli Ernici.
Nel 361 a.C. il console Caio Licinio Calvo espugnò la città scacciando da essa gli Ernici.
Sconfitta e disciolta la Lega Ernica, Ferentino si mantenne fedele a Roma e, nel 306 a.C., non partecipò alla rivolta di Anagni, Alatri e Veroli ottenendo il privilegio di restare indipendente e di conservare le proprie leggi: in tale anno iniziò l’edificazione della cinta muraria. Nell’anno 211 a.C. le campagne di Ferentino furono devastate dall’esercito di Annibale che muoveva verso Roma dal meridione.
Nel 195 a.C. Ferentino godeva del privilegio del diritto latino che l’annoverava fra i Municipi romani.
I Romani riconobbero la straordinaria posizione strategica e commerciale di Ferentino quando definirono, proprio a ridosso della sua cinta muraria, il percorso della via Latina, attuale via Casilina.

Tra l’anno 44 e il 68 d.C. San Pietro, partito da Antiochia e diretto a Roma, percorrendo la Via Latina – l’attuale Via Casilina – sostò a Ferentino, stabilendo nella contrada di Pietrolara, sinonimo del termine latino Petri-Ara (attuali località di Petroniano, oggi Putriano e Montecchie), due Vescovi, Epafrodito suo condiscepolo e Leone, al primo dei quali affidò la reggenza della chiesa di varie province.
Fu così che nella seconda metà del I secolo d.C., il numero dei cristiani in Ferentino crebbe moltissimo, come nel resto della penisola: tanto che l’imperatore Claudio bandiva da Roma S. Pietro e tutti gli altri di nazione Ebraica.

Negli anni 51 e 53 d.C. il Vescovo Epafrodito abbandonava l’antica dimora in Pietrolara, allontanandosi dal pericolo della via Latina, edificando un oratorio più nascosto, nella periferia della città, nella odierna contrada di Chivi o clivo di Belvedere, poco distante dall’odierna Porta del borgo, detta S. Agata.
Nell’erigere il nuovo oratorio, costruì un cimitero cristiano proprio nel luogo in cui oggi sorge la chiesa di S. Agata, ove furono sepolte anche le spoglie del martire protettore S. Ambrogio.
Se l’anno 68 fu l’ultimo della cattedra di S. Pietro, fu pure l’ultimo anno di vita del Vescovo di Ferentino Epafrodito, a cui succedette il nuovo Vescovo, chiamato Leone, e consacrato tale dallo stesso Apostolo.

Il nuovo Vescovo costruì un nuovo oratorio nel luogo in cui oggi si trova la chiesa rurale della Madonna degli Angeli. Fu concepito anche un vasto sotterraneo nascosto all’interno della città, denominato Sacro Speco, sotto i fabbricati delle contrade di S. Giuseppe, Vicolo Raonio, Lo Spreco, Piazza della Catena e Vicolo Meciano.
L’ingresso fu aperto in un luogo nascosto, presso la Chiesa di S.Lorenzo, ove era presente il fonte battesimale ed una pietra quadrangolare, alta circa un metro e vuota al di sopra, con un coperchio chiuso entro cui tutti i fedeli deponevano l’elemosina, necessaria alle spese per la mensa comune: il Gazzofilacco (gazophilacium = tesoro), successivamente condotto presso il Carcere di S. Ambrogio, ovvero nei sotterranei della residenza Vescovile.

Com’è possibile che questi monumenti siano giunti conservati fino ai nostri giorni? Durante lavori di ristrutturazione della chiesa di S. Giuseppe, eseguiti nel XVIII secolo, per rafforzare le fondamenta della navata sinistra si dovette scendere sotto terra per molti metri e si aprì casualmente una feritoia.
Ad una prima osservazione sembrò subito dare adito ad una via sotterranea e, in effetti, alcune persone che si introdussero dentro di essa trovarono un vasto locale, ben costruito e sorretto da grossi pilastri di travertino, da cui si poteva accedere ad un altro più grande. Nel sotterraneo furono rinvenuti due altari diroccati e, nella parte alta della parete, degli affreschi ricoperti di intonaco e corrosi dall’umidità, nonché una croce di piombo: la persona che ebbe cura di visitare il sotterraneo fu il parroco della chiesa di S.Ippolito, Don Fedele De Angelis. Nel 1841 la chiesa di San Lorenzo, prossima a crollare, fu spogliata dal Vescovo Canali, che portò i due oggetti nel Carcere di S. Ambrogio.

Durante l‘impero di Traiano e Adriano, la città era divenuta un luogo accogliente e tranquillo, dove giungevano un gran numero di villeggianti dalla capitale attirati dalle sorgenti di acqua acidula-solforosa e dal teatro capace di ospitare fino a 3.500 persone. Ferentinati furono Flavia Domitilla, moglie dell’Imperatore Vespasiano e madre di Tito, e Faustina moglie di Marco Aurelio.

Insieme a Fondi, Terracina e Cisterna, Ferentino fu tra i primi quattro centri del Lazio ad essere evangelizzato: la prima Curia Vescovile fu fondata da papa San Silvestro negli anni compresi tra il 314 ed il 335 d.C. .

Durante le persecuzioni il nucleo principale della comunità cristiana si trasferì in un luogo posto al di fuori del centro abitato, lontano dalle autorità e in un punto in cui la sua attività poteva essere notata meno. In tal luogo fu edificata un chiesa dedicata a San Pietro, in seguito distrutta dai Longobardi nell’anno 580 d.C. .
Solo dopo l’anno 600 il Vescovo si stabilisce in città, presso la chiesa di Santa Maria Maggiore dove, nell’anno 824, fu portato il corpo del Patrono della città, Sant’Ambrogio, martire sotto l’imperatore Diocleziano.
Successivamente la Sede Vescovile fu definitivamente stabilita sull’Acropoli, luogo in cui sorgeva il palazzo dei prefetti romani.

Con il disfacimento dell’Impero Romano d’Occidente, Ferentino subì le terribili conseguenze delle invasioni barbariche: le campagne vennero abbandonate, e i cittadini ferentinati fuggiaschi eressero le cittadine fortificate di Patrica, Supino, Morolo e Sgurgola. Successivamente all’irruzione dei Longobardi, nel IX secolo si susseguì quella dei Saraceni, che assalirono e depredato il cenobio monumentale di Montecassino.

Dal X secolo la vita a Ferentino riprese, attraverso il rinnovo di edifici e l’innalzamento di chiese.
Nel 1296 le spoglie di papa Celestino V, morto nella vicina Fumone, furono condotte a Ferentino dal suo successore, papa Bonifacio VIII. Il 15 febbraio 1327, approfittando della guerra tra Ferentino e Anagni, i concittadini abruzzesi di Celestino le trafugarono per trasportarle nella chiesa di S. Maria di Collemaggio a L’Aquila.

Dopo aver fatto parte del Ducato romano, Ferentino passò al potere temporale della Chiesa.
Nel XIII secolo, per volere di papa Innocenzo III, divenne capoluogo della Campagna e Marittima, ovvero di parte dell’attuale Lazio meridionale. Sempre nel XIII secolo, la città divenne libero Comune, dandosi un gonfalone e statuto proprio: lo “Statutum Civitatis Ferentini”. Lo Statutum è un complesso di norme che regolavano i rapporti tra il governo locale e la cittadinanza e attestava il grado di autonomia di cui godeva lo Stato – Comune di Ferentino nell’elezione del podestà, del giudice, degli ufficiali e nell’amministrazione della giustizia.
Lo Statutum, che è conservato presso l’Archivio di Stato di Roma, è diviso in cinque libri che comprendevano originariamente 481 capitoli: sono giunti a noi 405 capitoli, anche se sono conservati tutti i sommari. Lo Statutum non nacque tutto d’un getto e nello stesso tempo: si possono infatti individuare stili diversi, con una lingua che rispecchia solo nella forma il latino antico e si conforma al dialetto della popolazione locale.
Per vecchio che possa essere, lo Statutum di Ferentino, non va al di là dell’età dei Comuni, che durarono fino al XIV secolo.
La data di nascita dello Statutum può essere fissata tra i pontificati di Innocenzo III (1198-1216), il quale vi appose il primo sigillo, e quello di Martino V (1417-1431) che vi appose l’ultimo.

In questo secolo legheranno il loro nome a Ferentino papi, sovrani e condottieri, come l’Imperatore Federico II che lasciò il suo contributo per l’edificazione della chiesa di Santa Maria Maggiore.

Nel XV secolo Ferentino fu sede episcopale ambita dai più nobili esponenti delle casate baronali, specialmente per le sua laute prebende.
Il territorio di Ferentino conobbe le cruente lotte che opposero Spagna e Francia per il predominio in Italia: vincitrice la Spagna, sorse un contrasto che, alla metà del XVI secolo, si chiuse con il trattato di Cave: si prevedeva la distruzione di tutte le fortificazioni militari edificate nei territori pontifici confinanti con il Regno di Napoli, ormai in mano spagnola, e quindi furono quindi demolite le torri medievali di Ferentino.

Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 le truppe tedesche del Federmaresciallo Kesselring assunsero il controllo di tutta la provincia di Frosinone. A Ferentino riempirono di armi e munizioni i magazzini e gli scantinati dell’ex Collegio Martino Filetico. Alla fine di novembre, i Tedeschi avevano occupato praticamente tutta la Città, ingombrando piazze e strade con i loro carri armati, camion, cannoni e mitragliatrici. I vari comandi tedeschi erano collegati tra loro da linee telefoniche pensili, che attraversavano il centro abitato: minacciarono gravissime rappresaglie nei confronti di coloro che avessero danneggiato le comunicazioni.

Ferentino subì il primo bombardamento aereo il 30 dicembre 1943: fu colpita la parte nord della città, tra le macerie vennero ritrovati i corpi senza vita di cinque persone. Gli aerei avevano mancato il vero obiettivo, che era più sotto a qualche centinaio di metri di distanza in linea d’aria: la curva del “Ferrocavallo” sulla Casilina, in prossimità della quale era piazzata anche una batteria contraerea tedesca.
Il 22 gennaio 1944, proprio nel vivo dell’attacco sferrato dagli Inglesi sul Garigliano e nella stessa mattina in cui la flotta da sbarco americana entrava nella baia di Anzio, ci fu la seconda incursione aerea che provocò vittime e rovine. Alle 8.15, dopo che un apparecchio ricognitore era stato abbattuto dall’azione antiarea tedesca poco lontano dall’abitato, sopraggiunse fulminea una squadra di velivoli anglo-americani, che sganciarono numerose bombe sull’abitato causando il crollo di parecchie case e facendo oltre cinquanta vittime tra la popolazione civile.
La sciagura poteva e doveva essere risparmiata: in seguito a lunghe pratiche presso il Comando tedesco, delle quali si era interessata la Santa Sede, si era riusciti ad ottenere una ordinanza dallo stesso Kesselring, in cui veniva proibito alle colonne tedesche, dirette al fronte, di sostare in questa città, e veniva anche disposto che fossero allontanate dalla cinta delle mura antichissime le batterie antiaeree. Non si seppe mai se l’ordine fosse mai giunto al Comandante della Piazza, a causa delle interrotte comunicazioni postali con Roma, fatto sta che una colonna tedesca motorizzata sopraggiunse da nord, trasportando cannoni ed autoblindati: l’ufficiale che la comandava chiese al collega germanico di far tappa e metterla al sicuro entro l’abitato.
Il Comandante della Piazza asserì di essersi opposto inutilmente alla richiesta, perché l’altro non tenendo in nessun conto la sua protesta, fece collocare i mezzi sulla piazza principale e lungo la via di accesso. Nel frattempo passò sulla città un aereo alleato ricognitore che gettava razzi illuminanti per scattare fotografie e, in base a queste, avvenne il bombardamento ed il mitragliamento con una azione fulminea: nessuno ebbe il tempo per rifugiarsi.

Ferentino si trovò nel mezzo di due fronti, quello di Anzio e quello di Cassino. Per questo i bombardamenti aerei iniziarono prima che il Comando alleato ordinasse l’operazione Strangle (strangolamento), il cui scopo era quello di interrompere le vie di comunicazione delle Armate tedesche con l’Italia settentrionale e la Germania.
Con l’operazione strangle i bombardamenti su Ferentino divennero mirati e metodici. Quotidianamente e a turno le formazioni aeree inglesi e americane martellarono la rete stradale e ferroviaria che conduceva e al fronte di Cassino e a quello di Anzio. E mentre i caccia devastavano la Casilina prendendo di mira gli automezzi tedeschi, i bombardieri riversavano a getto continuo bombe sulle strade e sui ponti, nel tentativo di bloccare le vie di rifornimento alle truppe germaniche.
La disperata resistenza delle truppe germaniche sul fronte di Cassino viene annoverata tra le imprese più brillanti compiute dai tedeschi durante tutta la Seconda Guerra Mondiale. Nell’attuazione dell’opera di “strangolamento”, Ferentino subì la quinta incursione aerea il 17 marzo 1944 quando una formazione di 12 bombardieri sganciò un centinaio di bombe con il proposito di interrompere il transito autoveicolare sulla Casilina. Molte di esse caddero fuori le mura cittadine, solo qualcuna nel centro urbano, una delle quali proprio nell’orto attiguo alla Cattedrale, infrangendo le vetrate dell’insigne monumento. Nell’incursione morirono otto persone.

Seguirono sei settimane di relativa pausa; sul cielo di Ferentino volavano solo caccia, che mitragliavano automezzi sulla Casilina. Ma la sera dell’11 Maggio il fronte di Cassino e quello di Anzio si accesero: gli Alleati espugnarono il fronte di Cassino, ruppero l’accerchiamento di Anzio e raggiunsero la Via Appia. Nello stesso giorno, ignara di quanto le stava succedendo attorno, Ferentino si preparava a subire una serie di bombardamenti che dovevano portare alla sua pressoché completa distruzione. La sera del 23 maggio 1944 ci fu un movimento di automezzi tedeschi che, diversamente, da quanto avevano promesso alle autorità civili ed ecclesiastiche locali, entrarono in città appostandosi al Vascello e nascondendosi sotto gli alberi. La cosa non sfuggì ai ricognitori anglo-americani, che un’ora dopo tornarono a volteggiare in gran numero sulla città con rumore assordante. La notte tra il giorno 23 ed il 24 sul cielo di Ferentino si accesero numerosi razzi luminosi, che illuminarono a giorno tutta la valle, dai Monti Ernici ai Monti Lepini. La città intera fu ridotta in un cumulo di macerie. Moltissime le vittime. Nei successivi giorni 25 e 26 maggio i bombardieri tornarono di nuovo a seminare morte. Sotto le macerie finirono buona parte dei soccorritori, sorpresi a tirar fuori dal cumulo dei sassi e dei calcinacci i loro parenti o amici. Per tutto il 29-30-31 del mese di maggio, Ferentino divenne bersaglio dei cannoneggiamenti. Furono ripetutamente colpiti gli edifici posti nella zona alta della città. L’Ufficio del Genio Civile di Frosinone, stimò nel 75% il grado di distruzione per le sole abitazioni private di Ferentino.

All’alba del 2 giugno 1944 le truppe anglo-americane fecero il loro ingresso a Ferentino. Già dalla sera prima le pattuglie tedesche proteggevano la ritirata, prendendo la direzione dei monti ed evitando le strade. I ferentinati videro avanzare con giustificata circospezione le avanguardie canadesi, poi andarono loro incontro salutandole con manifestazioni di giubilo.
La via Casilina, che allora attraversava la città, fu tagliata in una variante dagli Alleati, per facilitare il transito dei loro automezzi.

 

Santa Maria Maggiore.

Santa Maria Maggiore in FerentinoTra le prime chiese in stile gotico-cistercense costruite in Italia e tra quelle anche meglio conservate. Sorge sopra i ruderi e le testimonianze di altri edifici di culto cristiani: la “Domus Ecclesia“, la Chiesa del IV-V secolo e la Chiesa del IX secolo.
Le precedenti Chiese sono state Cattedrali della Diocesi di Ferentino fino al 1108. Erano – secondo un modello che ritroviamo ancora in Santa Lucia e nella vecchia Sant’Ippolito – a due navate: centrale e laterale a monte, come si può vedere nei resti sottostanti l’attuale edificio.
Non abbiamo documenti scritti circa la data di costruzione dell’attuale Sacro Edificio, perché andati distrutti in varie vicende. Tra le varie ipotesi, quella maggiormente accreditata fa risalire la costruzione all’anno 1150, poiché proprio in quell’anno il Pontefice Eugenio III “in questa città, nella Chiesa di S. Maria Maggiore, consacrò molti Vescovi“, come risulta da un documento dell’Archivio Vescovile di Ferentino che richiama e completa quanto attestano le “Cronache di Fossanova“. La costruzione è opera dei Monaci Cistercensi presenti nella zona (in Fossanova, Ferentino, Casamari e paesi vicini) a cominciare dal 1135 circa, da quando cioè San Bernardo di Chiaravalle, con la protezione e sotto la spinta del Papa Innocenzo II, venne qui a rinnovare l’ordine benedettino secondo la riforma cistercense e qui trapiantò alcuni monaci francesi (tra gli altri: Oberto e Gerardo poi qui consacrati Vescovi da Eugenio III) per promuovere ad un tempo la vita religiosa nel basso Lazio e costituire una sicura difesa del Papato contro l’antipapa Anacleto II e contro il suo protettore, Ruggero II, re normanno dell’Italia Meridionale.
Sotto l’attuale Altare, durante i lavori degli anni 1951-1955, è stata rinvenuta una lapide che testimonia dell’esistenza di una “Domus Ecclesia” nella casa di Valerio Gaio, andata distrutta nella persecuzione di Diocleziano – anni 303 e 304 – proprio perché luogo di culto cristiano.

In essa si legge:

[saevis]SIMA PERSECUTIONE DERUTA DE SUIS PR[opriis]
[an]N[os] XXXIIII M[enses] X VALERIUS GAIUS MARI[tus]
DULCISSIM(a)E FECI.

[Durante la ferocis]SIMA PERSECUZIONE (di Diocleziano),
RASA AL SUOLO (la Domus Ecclesia), A PRO[prie spese]
(in ricordo degli [an]N[i] XXXIIII (e) M[esi] X (di età o di vita matrimoniale?)
(io) VALERIUS GAIUS MARI[to]
(la nuova Chiesa in onore della)
DOLCISSIMA (sposa) FECI

Quindi con la libertà data ai Cristiani di costruire le loro Chiese, tramite l’Editto dell’imperatore Costantino del 313, Valerio Gaio costruì una nuova Chiesa in memoria della moglie, a proprie spese. Questa interpretazione è da attribuire al professore Heikki Solin che, analizzando il tipo di marmo, lo spessore della lastra ed i caratteri della scrittura, ha anche ritenuto detta lapide come scolpita contemporaneamente ai fatti.

La Chiesa è tutta costruita in travertino, materiale facilmente reperibile nella zona stessa, tanto che l’edificio fu portato a termine in una decina di anni. Non fu completato e resta incompleto il tiburio. La primitiva e più austera facciata fu abbellita in seguito con aggiunte alle porte laterali, al rosone ed un nuovo portale in marmo. Il monumento ha subito, tra la fine del 1700 e i primi anni del 1800, trasformazioni interne con intonaci, stucchi e volte posticce che però non hanno trasfigurato le linee gotiche. Un accurato lavoro di restauro della Soprintendenza ai Monumenti del Lazio (1951-1955; 1978-1984; 1990-1995) e del Comune di Ferentino (1996-1997) ha riportato l’edificio al suo originale splendore.

Il piano della Chiesa è rettangolare, mentre la parte alta del monumento è cruciforme. L’interno ha tre navate, divise da pilastri. Le navate ricevono luce da monofore tagliate a sguancio. L’intercrocio è formato da quattro pilastri polistili, a base quadrata, con colonne su ciascuna faccia e colonnette agli angoli. Le prime danno stabilità agli archi, le seconde alle cordonate delle volte a crociera. Al centro del transetto, sulla volta si eleva una torre ottagona a due piani. Dietro l’altare, sulla parete frontale dell’abside, è posizionata una finestra bifora sormontata da una rosa. In omaggio agli insegnamenti e alle direttive di San Bernardo “il tempio è spoglio di ornamentazioni: semplice e austero, sembra ricavato a colpi di scalpello da una roccia compatta“. Un affresco duecentesco raffigurante la Madonna delle Grazie e Bambino, che regge con la mano sinistra un libro, e due acquasantiere di pietra – l’una con un putto sorreggente la vasca con giglio stemma di Federico II, l’altra con il supporto terminale, sotto il càntaro, circondato da un cespo di foglie stilizzate – sono le uniche dotazioni ornamentali.

I rosoni sono asimmetrici per disegno e intaglio: le rose dei lati Nord ed Est all’interno, quella del lato Sud all’esterno, sono inserite in un riquadro chiuso in alto da un arco a sesto pieno. Quella ad Oriente, è arricchita da un arco a tutto sesto, interno al riquadro, che poggia sui capitelli di due colonnine spezzate da un duplice anello, che lo aggira e lo incastona, e un altro esterno al riquadro, poggiante su piramidi rovesciate. Asimmetrici anche i capitelli, di cui uno con il fogliame rivolto all’interno.

Sulla porta centrale vediamo una tela rappresentante l’Assunzione, opera del ferentinate Desiderio De Angelis, del 1801. Le vetrate e le porte sono opera recente (1970) e realizzate dalla Soprintendenza ai Monumenti del Lazio.
L’altare attuale è costruzione recente (1984), realizzato in parte con i materiali dell’imponente altare moderno (1911), opera dell’Architetto Morosini, in sè pregevole ma fuori stile. E’ andato completamente perduto l’altare originale.
Anche il Tabernacolo attuale è recente (1984), ma con base di pietre antiche. La scritta in lettere ebraiche (shemì lajem, con riferimento al biblico shemì sham) richiama all’attenzione al Signore presente nell’Eucaristia per essere a nostro servizio.

Dalla navata Sud si accede ad una Cappella, ora occupata dall’organo, estranea al corpo della Chiesa alla quale solo all’inizio del 1800 è stata aggiunta mediante un grande e brutto arco. Si ipotizza che prima fosse una cappella a sé, dedicata a San Sebastiano, ed ancor prima l’affaccio di una loggia utilizzata per le benedizioni.

Il pulpito del periodo di Innocenzo III fu demolito nei primi anni del secolo scorso: rimangono solo due capitelli oggi utilizzati negli amboni, di cui uno adorno di gigli e rose, simboli rispettivamente del Comune e della famiglia dei Conti, imparentata con Papa Innocenzo.

L’organo, realizzato dalla Ditta P. Bevilacqua di Sulmona su progetto del Maestro G. Agostini, è stato costruito in ricordo dell’Anno Santo 1975, con il contributo dei fedeli. Ha 27 registri sonori (19 reali, 6 prolungati, 2 ritrasmessi) distribuiti su due manuali (Grande Organo ed Espressivo-recitativo) e pedaliera, con tre combinazioni aggiustabili a memoria elettronica. Le 1522 canne sono costruite in leghe di stagno e piombo e in legni vari. La consolle è spostabile.

Oggi la Chiesa si presenta completamente isolata, ma in origine faceva parte di un grande complesso abbaziale, ora andato distrutto, che occupava l’area dove attualmente sorge il Civico Ospedale, separato dalla chiesa tramite un piccolo chiostro, di cui sono ancora visibili sulla parete esterna della navata Nord le tracce delle arcate.
Sulla parete Nord sono ancora visibili gli incassi per l’alloggiamento delle travi lignee portanti la copertura del Chiostro.

Il lato Sud è caratterizzato dacontrafforti, di notevole altezza in relazione alle altre due dimensioni dell’edificio. La cuspide è sormontata da uno svelto campaniletto a bifora, con una rosa sulla facciata. In basso si apre un ampio vano a volta, incorniciato da due archi sovrapposti a tutto sesto, che poggia su tre soli punti e sorregge una cappella estranea al corpo della Chiesa: anticamente doveva qui aprirsi una loggia dalla quale si affacciava, sulla piazza sottostante, il Vescovo per la Benedizione nelle grandi solennità.

Di straordinaria bellezza, nella sua semplicità e austerità la facciata che guarda a oriente. Due contrafforti la dividono verticalmente, a sostegno delle volte interne a ogiva. In alto è bene in evidenza una finestra circolare a ruota con otto lobi, nel mezzo si apre una elegante finestra bifora. In basso a sinistra di chi guarda, merita un particolare rilievo un muro di pietre massicce e un portale, ora chiuso, residuo delle Chiese precedenti. Inseriti sulla parete e nel contrafforte di sinistra si notano pezzi ornamentali e resti di marmo con fregi di fattura longobarda.
La facciata principale è volta a Occidente. “Il prospetto è a forma basilicale con la nave centrale che si eleva dalle navi laterali e termina a timpano; esso è integro nella sua forma e ornamentazione, in ogni parte rivestito da cortina di pietra travertino lavorato a scalpello […] In alto nel prospetto si trova un rosone circolare a ruota i cui raggi sono dati da tante colonnine con archi circolari che si intersecano. Sotto l’angolo cuspidale e sul rosone è posta la statua in bassorilievo di Cristo Salvatore, adorno di nimbo cruciforme, libro nella sinistra e destra benedicente: la scultura apparteneva ad una Chiesa precedente, costruita sullo stesso luogo. In basso s’aprono tre portali: quelli ai lati con archi di pieno centro, sormontati ciascuno da un occhio di bue, ottagono a destra e circolare a sinistra“.

La porta centrale ha invece l’arco ad ogiva, percorso da un attico con cinque pannelli quadrati, contenenti altrettanti medaglioni circolari: in quello di centro è scolpito l’Agnello, negli altri i simboli dei quattro Evangelisti, Giovanni, Matteo, Luca e Marco. “E’ notevole nel portale l’ornamentazione costituita da svelte colonnine in marmo cipollino, e da squisiti intagli su marmo, fra i quali un festone che incornicia l’archivolto composto da un tralcio stilizzato di vite con pampani e uva simboli della Chiesa. Le colonne che tengono la volta superiore del portale e l’incastellatura dell’attico scendono ad appoggiarsi sulla schiena di due leoni accovacciati“.

Nella lunetta, ora vuota, vi era un mosaico raffigurante la Madonna con il Bambino e ai lati San Bernardo di Chiaravalle e San Benedetto. In rilievo da un capitello di una colonna di destra una colomba, emblema della maestranza edile esecutrice dei lavori. Il ricco portale maggiore, in sostituzione del precedente più semplice ed austero, è opera della prima metà del 1200. Per la sua costruzione fu adoperato marmo del vicino teatro romano del II secolo. Da notare in proposito, la scritta “AUGU(STUS)” su una pietra dello stipite destro e altre scritte sul fianco del leone e sul plinto di sinistra.
All’abbellimento della facciata contribuì anche l’imperatore Federico II che, nonostante le note controversie e lotte contro il papato, fu amico e benefattore dell’Ordine dei Cistercensi. La sua munificenza fu ripagata dai Monaci che vollero scolpito il suo ritratto, come cariatide, nel portale di sinistra, insieme a quello forse di Costanza d’Altavilla.

Sette sono le campane nella torre campanaria, che permettono di eseguire varie melodie, essendo disposte in ordine:
– Santa Maria Assunta (Mi basso – Dominante)
– Maria Madre di Gesù (La – Tonica)
– Maria piena di grazia (Si – Sopratonica)
– Maria di Fatima (Re b – Terza sensibile)
– Maria di Lourdes (Re – Sottodominante)
– Maria di Nazareth (Mi – Dominante)
– Maria Avvocata nostra (Sol b – Sopradominante)

Nella parte sottostante la chiesa è conservata la pietra tombale di Sant’Ambrogio Martire, recante la scritta “AMBROSIO Px I.P.E.S.” ovvero “Ad Ambrogio Cristiano il Santo Vescovo Giovanni pose“. Quando nell’anno 824 furono ritrovati i resti mortali del centurione Ambrogio, che erano stati sepolti nell’antica necropoli fuori Porta Sant’Agata, il Santo Vescovo Giovanni, al tempo del Papa S. Pasquale I (817-824), volle fossero portati trionfalmente e conservati con il dovuto onore e culto nella Cattedrale di S. Maria Maggiore. Qui rimasero fino al 29 Dicembre 1108, quando il Vescovo Agostino li trasferì nella nuova Cattedrale sull’Acropoli, dove ancora oggi sono conservati.

 

San Giovanni e Paolo.

Alcune immagini della Cattedrale di San Giovanni e Paolo di FerentinoLa Chiesa Cattedrale ha avuto origini altomedievali con il vescovo Pasquale I, sotto il pontificato del Papa Pasquale I (817-824), come ben dimostrano i numerosi reperti archeologici, il ciborio, i plutei, le colonnine e le varie cornici di raccordo di stile longobardo. La grande opera di ristrutturazione e di rinnovamento interno della basilica si deve invece all’intraprendenza del Vescovo Agostino (1106-1113), già abate del Monastero di Casamari, definito “plus” et “actor”, pastore zelante ed artefice, che la dedicò, come quella di Casamari, ai santi fratelli romani Giovanni e Paolo.
A suggello della grande opera intrapresa, infatti, il pio prelato il 29 Dicembre del 1108 vi trasferì le reliquie del martire Ambrogio, patrono e principale protettore della città e della Diocesi, come confermato dal Calendario Liturgico della Corte Papale Avignonese del 1300.
Un pluteo cosmatesco presenta anche il nome del papa Pasquale II (1099-1118): la tradizione vuole che detto Pontefice il 13 Giugno 1108 abbia consacrato di persona la rinnovata basilica Cattedrale e l’altare.

Per antica tradizione, infatti, il ricordo annuale della Dedicazione della Cattedrale veniva celebrato dai Canonici il 13 Giugno (cfr. Archivio Capitolare, ACF, voI. V’ F. 105). Ma il vescovo Valeriano Chierichelli, con un Editto del 12 Maggio 1707, per togliere la concomitanza con la festa di S. Antonio da Padova che a Ferentino si celebrava solennemente nella chiesa di S. Francesco con processione e fiera, dietro Decreto della Sacra Congregazione dei Riti del 27 Novembre 1706, trasferì il ricordo della Dedicazione della Cattedrale al 23 Ottobre di ogni anno.

Nella lunetta esterna sulla porta centrale d’ingresso è raffigurata la “Vergine odigìtria”, cioè del “retto cammino”, tra i santi Giovanni e Paolo in tunica romana clavata, completata dal pallio bianco, che guarda chi entra e gli indica come vera meta del cammino il Bambino Gesù che porta sul braccio sinistro.
Pendenti alle due estremità dell’arco superiore sono scolpite due botticelle, segno dell’abbondanza di beni spirituali che si troveranno all’interno del duomo e che donano allegrezza e gioia.

Quello che affascina chi visita la Cattedrale per la prima volta è il pavimento in mosaico della celebre famiglia romana “Dei Cosmati”, che risale al 1203. In un’iscrizione, purtroppo scomparsa nel 1747 durante i lavori di risistemazione della cappella laterale destra, dedicata allora a S. Ambrogio, incisa su una delle volute della guida centrale si leggeva: “Hocpavimentumjecit Albertus Episcopus, per manus Jacobi magistri romani”. Si tratta di Alberto Longhi (1203-1222) già canonico della Cattedrale di Anagni, maestro ed amico del papa Innocenzo III, scelto e consacrato vescovo dallo stesso pontefice nella Cattedrale di Ferentino il 30 maggio 1203.
Entrati, ci si trova davanti a una guida marmorea, costituita da tessere policrome, disposte a ornamento di una serie continua di volute che racchiudono dei cerchi, con lo scopo di scandire i vari passaggi di un “cammino di perfezione” che l’anima cristiana compie per arrivare all’incontro con il Signore, che abita nel punto più interno ed elevato della chiesa.

In corrispondenza dello scalino al centro della chiesa si trovava la recinzione della “Iconostàsi” (letteralmente il “luogo dove si pongono le immagini”), rimossa in epoca Barocca: era costituita da lastre di marmo, ornate da intarsi in mosaico con disegni geometrici o con tondi disposti a quincònce, ovvero come il numero cinque nei dati da gioco, raccordati da cornici scolpite. Oggi i plutei, tolti già nel 1693 dai luoghi originari, si trovano riutilizzati nel pavimento o esposti, anche se mutili, intorno ad alcuni pilastri adiacenti.

La zona sullo scalino è detta anche Schola Cantorum, perché racchiudeva lo spazio riservato ai ministeri esercitati di fatto nella Chiesa: cantori, lettori, accoliti, sacristi e ministranti. Nei lavori di restauro eseguiti nel 1904 si è voluto ricostruirne una più piccola, arretrandola, per recintare almeno il presbiterio come luogo riservato al clero, disposto su un piano ancora più rialzato, di almeno 86 centimetri.

Tra la porta d’ingresso e lo scalino la guida si allarga in un grande riquadro: questo è il punto di mezzo nella zona riservata al popolo, cioè l’omphalos, letteralmente l’ombelico. La cornice riquadra un quincònce, di cui la rota centrale è più grande delle altre e di color giallo oro: essa rappresenta Cristo Gesù, contornato dai quattro esseri viventi dell’Apocalisse: il leone, il bue, l’uomo e l’aquila (Ap. 4,9), o dai padri della Chiesa (S. Treneo, Adv. Haer. 3.11.8) scelti a significare i quattro evangelisti.
L’omphalòs è fatto a imitazione della “rota regia”, costruita nel V secolo dall’imperatore Giustiniano nella Basilica di Santa Sophia a Costantinopoli, dove l’imperatore era solito porsi per ricevere l’omaggio della corte, dei dignitari e del popolo. Era il luogo tradizionale dell’accoglienza, ove ogni nuovo vescovo, al primo ingresso nella sua Cattedrale, si inginocchia a baciare il Crocifisso.
Anche i neofiti, la notte di sabato santo, dopo aver ricevuto il battesimo al fonte battesimale, qui venivano accolti dal vescovo per ricevere l’unzione della cresima ed essere ammessi a celebrare l’eucaristia con la comunità.

I sei cerchi che ci separano ancora dallo scalino indicano il periodo e il cammino catecumenale della Iniziazione cristiana, prima di essere ammessi ai Sacramenti. E’ il momento delle Catechesi, della conversione e delle scelte vere nella vita: della conoscenza reale di Cristo, dell’esercizio delle virtù cristiane, ma soprattutto dell’accettazione delle sei richieste del Padre Nostro, la preghiera insegnata da Cristo Gesù, che nel periodo della Iniziazione Cristiana viene consegnata in modo particolare ad ogni catecumeno perché la mediti, l’approfondisca e la faccia propria prima di essere ammesso alla vita sacramentana.
Nel quinto cerchio si trova ancora un quincònce disposto a croce, che indica la “signatio”, con cui il catecumeno, che si prepara a ricevere il battesimo, viene segnato sulla fronte dalla croce di Cristo Gesù.

Il dislivello dello scalino ci immette ad un livello spirituale superiore, che è la zona sacra dell’Iconostasi, nella quale possiamo usufruire della vita sacramentaria della Grazia: le sette circonferenze infatti ora racchiudono ruote ed esagoni, i sette sacramenti donati da Cristo e amministrati dalla Chiesa. I due sacramenti che liberano l’anima dal peccato e dal male – il battesimo e la penitenza – sono rappresentati da due ruote di granito grigio.
Due lastre intarsiate con il numero “8” ci ricordano il “giorno ottavo”, il giorno dopo il sabato, giorno della Risurrezione di Cristo e della Pasqua e ci avvicinano sempre più al luogo dove si vive la centralità del messaggio di salvezza.

Per la celebrazione dei divini Misteri, che sono lo scopo principale della Chiesa, sono stati disposti due grandi centri di interesse ben visibili nella Chiesa, i più rappresentativi e i più ornati: l’ambone con la colonna del Cero Pasquale e il ciborio con l’altare.
L’ambone era un primo luogo nobile ed elevato nella Chiesa dove si proclamava la Parola di Dio e quindi si svolgeva la prima parte della Messa. Esso consisteva in una tribunetta posizionata sulla destra di chi entra, all’interno dell’iconostàsi. Era sostenuta da sei colonne e abbastanza elevata per rendere visibile il lettore che proclamava le letture; vi si accede- va per mezzo di una scala in muratura. Era racchiusa per tre lati dai plutei, ora posti nel pavimento davanti al Martyrium di S. Ambrogio, raccordati fra loro agli angoli dalle quattro colonnine, riutilizzate nel 1904 ad abbellimento dell’altare maggiore.
A fianco dell’ambone si innalzava la colonna tortile del cero pasquale. Addossata attualmente ad un pilastro della navata centrale, rappresenta ancor oggi l’elemento più fine ed elegante di tutta la chiesa, perché sosteneva il cero di Pasqua, che è simbolo di Cristo risorto e luce del mondo. Era sostenuta alla base da tre leoni e da una sfinge, riutilizzati a decoro della cattedra vescovile e presso la porta della sagrestia. Una scritta, riportata sul passamano, riutilizzato poi nella transenna che cinge il presbiterio e l’altare, ricorda ancora oggi il nome dell’artista Paolo, della bottega stessa dei Cosmati: “Hoc opifex magnusfecit vir nomine Paulus”, ovvero “Quest’opera è stata eseguita dal grande artefice di nome Paolo“.

Il ciborio è a copertura dell’altare maggiore, sostenuto in alto da due ordini di colonnine ed in basso da quattro grandi colonne in marmo cipollino, con capitelli finemente lavorati. Vuole essere la ricostruzione di quello che era il cosiddetto “Santo dei Santi” nel Tempio di Gerusalemme, cioè il luogo più raccolto e intimo di tutta la basilica, dove si celebrano i sacri Misteri e abita la Divinità. Esso è abbellito da simboli e lampade, occultato da tendaggi, ma al tempo stesso aperto e visibile, per indicarne il mistero e la sacralità. Il ciborio costituisce, con il prospetto del sottostante Martyrium, dove è il sepolcro del martire Ambrogio, una pregevole opera di Drudo del Trivio (1230), commissionata dal nobile ferentinate Giovanni, arcidiacono di Norwich. I pannelli di copertura, come risulta dalle scritte funerarie dedicatorie ivi incise, sono riutilizzazioni di lastre tombali provenienti da un qualche cimitero paleocristiano della vicina Roma.

Opera illustre è anche la Cattedra Vescovile posta rialzata al centro dell’abside, in posizione di dominio sul presbiterio e su tutta l’assemblea. La cattedra è l’icona plastica e visibile del Magistero dei Vescovi Ferentinati, onorata dalla presenza di tanti pontefici romani, tra i quali ricordiamo Pasquale II, che ha consacrato la chiesa; Innocenzo III, che il 9 Maggio 1203 vi ha canonizzato S. Wulstano, vescovo di Wocester (Inghilterra); Onorio III, che nel 1223 vi ha ricevuto l’imperatore Federico II e Giovanni di Brienne Re di Gerusalemme per un accordo sulle crociate; Alessandro III, Gregorio XVI, Pio IX e per ultimo Paolo VI (1 Settembre 1966).

Nel catino dell’abside domina in alto la figura del Cristo pantocratore, seduto in cattedra in abiti sacerdotali. Cristo, come sommo sacerdote della nuova Alleanza, riunisce in sé tutto il mondo ed abbatte ogni separazione tra il popolo ebreo, erede dell’antica Promessa, e gli altri popoli pagani, lontani dalla verità, rappresentati dalle due città di Gerusalemme e di Betlemme. Gli affreschi di tutta la chiesa sono stati eseguiti dal Eugenio Cisterna nel 1904.

 

Il Seminario Vescovile.

Seminario di FerentinoCon il Vescovo Enea Spennazzi (1643-1658) ci furono i primi tentativi per aprire un luogo per la formazione dei giovani aspiranti al Sacerdozio. Il successore Monsignor Roncioni (1658-1676) costituì un piccolo patrimonio con cui il Seminario potesse vivere.
Nel gennaio 1677 il Vescovo Antonelli ne decretò la erezione e di fatto il Seminario fu aperto il 31 maggio l687 benché il luogo non fosse ideale e per la ristrettezza dell’ambiente e per l’ubicazione.
Nella sede attuale fu aperto da Monsignor Borgia nel 1751. Fu ampliato poi dalla munificenza di Leone XIII che in Ferentino ricevette gli Ordini minori.

L’attuale seminario si sviluppa su una superficie di 1.117mq. Nella parte frontale arriva fino al terzo piano per circa 12 metri. Le altre due ali interne, invece, si fermano al secondo piano. La cubatura complessiva è di 1.189.790mc. Il giardino con l’orto è di circa 2.400 mq.

Editto del vescovo Giovanni Carlo Antonelli di apertura del Seminario Vescovile di Ferentino e di ammissione degli aspiranti Giovanni Carlo Antonelli per la Dio grazia e della Santa Sede Apostolica, Vescovo di Ferentino:

“Acciò che nella città e Diocesi nostra con frutto maggiore ad esaltatione e gloria della Chiesa di Dio si eseguisca quello che la Sacra Congregatione in conformità della dispositione del Sacrosanto Concilio Tridentino ha ordinato per l’erettione del Seminario, habbiamo col maturo consiglio delli nostri Deputati a questa pia e santa erettione deliberato di ammettere nel nostro Seminario giovini secondo le qualità determinate da esso Concilio di età non minori di dodici anni, poveri, in numero di otto; e se altri giovini vorranno essere ammessi nel Seminario per convittori doveranno pagare scudi due il mese per ciascheduno anticipatamente, purché tutti si mostrino veramente accesi di voler servire a Dio et alla Santa Chiesa; li quali giovini saranno instruiti da maestri di Gramatica, di Sacre Lettere, di Humanità e Rettorica et altre buone discipline.
Laonde si notifica a tutti quelli della città e diocesi nostra che desiderano fare instruire in questo Seminario alcuno de’ loro figlioli o altri, debbano fra il termine de’ diece giorni doppo la publicatione del presente editto presentarli avanti di Noi e nostri Deputati per prendere le dovute informationi, onde darà ciascheduno, che si presentarà, in scritto il nome, cognome e del padre e madre, sua habitatione et età e finalmente piena e vera informatione dell’habilità e stato suo; de’ quali giovini, havutane diligente e vera informatione, si farà scelta delli più atti sino al numero di otto. E per dar principio a questo pio, santo e necessario Instituto, non havendo noi sin hora potuto unire beneficii semplici o altra entrata sufficiente, come desideravamo, né in altro modo dotarlo, habbiamo al presente con accurato consiglio delli detti Deputati tassato tutte l’entrate de’ beni ecclesiastici et arco applicate et unite perpetuamente quelle delli due conventi soppressi di San Domenico e della Madonna delli Angioli di questa città et altri secondo in detta tassa. Et per esecutione di questa nostra determinatione per l’autorità a Noi concessa dal Sacrosanto Concilio di Trento esortiamo, commettimo e commandamo a tutti quelli che sono stati tassati che debbano haver pagato la metà del tassato per tutto il mese di maggio prossimo venturo e l’altra metà per tutto il mese di novembre prossimo venturo in mano delle persone da noi acciò destinate e così successivamente negli anni venturi, certificando ciascheduno che con ogni nostra diligenza e potere si procurerà di unire beneficii semplici al detto seminario e con altri modi possibili dotarlo e, secondo che si andarà unendo e dotando, parimenti si andarà sgravando a ciascheduno la somma tassata; altrimenti, passato detto termine senza altra dichiaratione o intimatione, si farà l’esecutione contro di chi non haverà pagato e suoi Administratori, Proposti Offitiali, Priori, Affittuarii, Debitori e frutti loro. Et acciocché il presente editto habbia a venire a notitia di tutti, vogliamo et ordiniamo sia affisso alla porta della nostra Chiesa Cathedrale et alla piazza di questa città et alle porte delle Chiese maggiori de’ luoghi della nostra Diocesi et astringhi tale affissione come se per ciascheduno fusse stato personalmente intimato”.

Dato in Ferentino dal nostro palazzo vescovale li 4 di aprile 1687
+ Giovanni Carlo Vescovo di Ferentino
Marsilius Agneus Canonicus et Cancellarius Episcopalis
Aristotelis Roscius publicus mandatarius Curiae Episcopalis rogatus heri affixisse corpus supradicti Edicti ad valvas ianueae maioris Ecclesiae Cathedralis et Plateae Publicae Ferentini in hac die 5 aprilis 1687 Marsilius Agneus Cancellarius episcopalis

(Traduzione di Aristotele Rossi, pubblico mandatario della Curia Vescovile, richiesto, ieri affisse il presente editto alle ante della porta maggiore della Chiesa Cattedrale e nella piazza pubblica di Ferentino nel giorno 5 aprile 1687 Marsilio Agnei Cancelliere Vescovile).

 

La scuola femminile.

Nel 1755 mons. Pietro Paolo Tosi, vescovo di Ferentino, visitando la città, ispezionò la Scuola Femminile delle Maestre Pie, eretta in Casa Claruzi nel territorio della Parrocchia di S. Valentino. Il Vescovo lodò la buona conduzione della scuola e ne deputò come esattore don Vincenzo Piccirilli (AVF, Visite Pastorali, vol. A/IV, f. 31). Dunque già dagli inizi del XVIII secolo in Ferentino era attiva una scuola per le fanciulle diretta dalle Maestre Pie. Tale scuola era seguita anche con grande interesse dalla Comunità cittadina; infatti nel 1789, il 22 ottobre, il consiglio comunale, riunito in seduta plenaria e presieduto dallo stesso governatore Ermenegildo Gabrielli, deliberò di accollarsi gli oneri delle spese di affitto dei locali e dello stipendio alle maestre. Il servizio che le maestre offrivano non poteva non trovare favorevoli i pubblici amministratori: infatti queste erano impegnate a raccogliere le fanciulle del popolo, lasciate sole in città dai genitori, che giornalmente si recavano nei campi a svolgere il loro faticoso lavoro. Lasciate sole e senza controllo, le fanciulle potevano traviarsi e, così, arrecare grave danno alla società, perché una volta divenute spose e madri, essendo ignoranti, non avrebbero saputo trasmettere ai loro figli i sani principi del Cristianesimo, della vita timorata di Dio né avrebbero saputo condurre bene la vita familiare. Nel Lazio già della metà del XVII secolo si erano costituite istituzioni educative dirette da giovani donne, per sovvenire ai bisogni culturali e religiosi di tutte le fanciulle, ricche e povere. Le maestre di queste scuole non erano religiose, ma laiche, e questo per favorire i loro spostamenti da città in città e per permettere loro di trattare liberamente con le persone, senza gli impacci dei vincoli religiosi. Una delle prime istituzioni scolastiche femminili fu fondata nel 1685 in Viterbo da Rosa Venerini e subito si diffuse in tutto il Lazio, trovando terreno fertile anche nella Provincia di Campagna: ad Anagni (suor Claudia De Angelis, 1708) e ad Anticoli, l’odierna Fiuggi (Sorelle Faioli, 1747). Ma nella provincia di Campagna le Scuole Pie ebbero un’altra direzione: in questa provincia si pensava che lo stato religioso giovasse a dare maggiore prestigio alle maestre. Così la scuola delle sorelle Faioli fu trasformata in Conservatorio, una istituzione religiosa, e alle Maestre fu consegnato l’abito francescano nero. Le Maestre Pie divennero le Suore di S. Chiara.

Dopo i luttuosi eventi del periodo rivoluzionario francese, ricostituito l’ordine pubblico, tra i vescovi di Alatri, Anagni, Ferentino e la Priora del Conservatorio di Anticoli intercorse un accordo con l’intento di costituire nelle diocesi della Provincia scuole similari a quella di Anticoli. Nel 1802 sorse il Conservatorio della Carità ad Alatri e nel 1803, ospitata nei locali di Casa Carnabile (presso la Chiesa di S. Francesco), quello di Ferentino. La scuola femminile ferentinate nel 1804 si trasferì in casa Querci e, poi, nel 1815 in Casa Ricci, sede dell’attuale casa delle francescane. La data ufficiale della nascita del Conservatorio della Carità di Ferentino è il 14 aprile 1816, nel quale le maestre erano suore di volontaria clausura e sottoposte ai voti semplici di povertà, castità ed obbedienza. Il Conservatorio di S. Chiara prese il titolo “della Carità” perché dopo la Rivoluzione Francese le autorità civili riconoscevano solo le istituzioni religiose che avessero qualche funzione sociale. In questa scuola e conservatorio entrò il 18 luglio 1819 Costanza Troiani, di sei anni, vittima di una grande tragedia familiare. La scuola era essenzialmente di Dottrina Cristiana, divisa in due classi a seconda dell’età e del livello di preparazione; il testo era il Catechismo di S. Roberto Bellarmino, al quale si aggiungevano la spiegazione dei Vangeli domenicali, l’apprendimento delle preghiere e di vari metodi di orazione e l’insegnamento della lettura. Parallelamente allo studio l’apprendimento dei lavori femminili.
Nel 1829 nel regolamento scolastico si introdusse l’insegnamento della scrittura, necessario tanto alle fanciulle “civili” quanto alle popolane; queste ultime, infatti, dovevano saper scrivere per stare a bottega. Le fanciulle ammesse alla scuola, indipendentemente dal loro livello sociale, tanto le “civili” quanto le popolane, seguivano le lezioni nella medesima aula. Si organizzò anche un opificio di cotoni tessuti acciò le fanciulle scolare potessero apprendere tal lavoro e trattenersi a lavorare invece di girare e vagare per la Città.
Costanza Troiani, Caterina di S. Rosa da Viterbo, nel 1829 fu nominata maestra di scrittura. Caterina Troiani rimase nel conservatorio-scuola femminile fino al 1859, quando lasciò Ferentino per fondare la scuola femminile al Cairo (Clot-Bey), in Egitto. Il metodo adottato nella scuola femminile ferentinate si ispirò a quello promosso da Madre Spinelli.

 

S. Ambrogio Martire.

San Ambrogio Martire Patrono di FerentinoGiovane soldato, proveniente dalla Gens Ligure, segretamente convertitosi al Cristianesimo, nel 304 giunse a Ferentino a cavallo, alla testa della sua Centuria, per ricercare dove si nascondessero i fedeli locali, per il quale forse portava notizie dal Vescovo di Roma.

Fu accusato di alto tradimento per aver contravvenuto alle leggi dell’imperatore Diocleziano, e portato al tribunale di Daciano, Governatore delle Spagne, con il quale era arruolato.
Trovato Ambrogio costante nella sua confessione, Daciano ordinò che il centurione fosse degradato, incatenato e gettato nel sotterraneo del suo palazzo.

Partito Daciano per una ispezione nella Campania, e tornato dopo un mese, Ambrogio era ancora vivo nonostante il digiuno. I fedeli erano rafforzati nella fede vedendo il fratello resistere, tanto che fu ordinato di sommergere Ambrogio nell’Alabro con una macina al collo. Di nuovo sopravvissuto, all’alba del 16 agosto fu decapitato, bagnando e benedicendo con il martirio il suolo di Ferentino.

Il suo corpo, dopo una prima sepoltura di circa cinque secoli nelle cripte sottostanti la Chiesa di S. Agata, all’arrivo dei Saraceni nell’800 fu portato dentro le mura, nella Chiesa di S. Maria Maggiore. Vi stette per oltre trecento anni, finchè il 29 Dicembre 1108 il Vescovo Agostino lo volle trasferire sull’Acropoli, nella rinnovata Chiesa Cattedrale dedicata ai Santi Giovanni e Paolo, deponendolo nel sepolcro ricavato nella navata centrale sotto l’altare maggiore.

L’11 agosto del 1397 il Papa Bonifacio IX concesse il privilegio dell’Indulgenza Plenaria a chi facesse visita al suo sepolcro il 15 ed il 16 Agosto di ogni anno, giorno del suo martirio.
Probabilmente in questa occasione la comunità di Ferentino volle impreziosire il suo sepolcro e gli dedicò una cappella in fondo alla navata destra della chiesa. Una apposita Confraternita, quella dello Spirito Santo, si assunse l’onere del mantenimento della cappella dedicata al Santo, provvedendola dell’olio della lampada per tutto l’anno e incaricandosi di ogni lavoro di abbellimento e di restauro.

Nel 1639 i canonici del Capitolo Cattedrale, depositari e custodi delle sacre reliquie, ottennero dal Vescovo Ennio Filonardi il permesso di aprire il sepolcro del Martire, conservato sotto l’altare della sua cappella, per poterne constatare lo stato di conservazione e disporlo in un modo più visibile per la venerazione dei fedeli. Dinanzi al crescente interesse dei fedeli, il Vescovo propose una solenne processione con le sacre reliquie per la Domenica successiva, che in qull’anno capitava il 1° Maggio. Da qui nacque la tradizione, ripetutasi per 350 anni fino a noi.
Il Vescovo, infatti, volle perpetuarne la memoria istituendola come festa da celebrarsi ogni anno con il titolo di “Inventio Corporis Beati Ambrosii Martiri“, ovvero “Festa della ricognizione del Corpo di San Ambrogio Martire” che oggi noi chiamiamo del “Patrocinio di S. Ambrogio“.
Tale festività si aggiunse, così, alle altre due che già si celebravano nella nostra Chiesa locale: il 16 Agosto, giorno del martirio, e il 29 Dicembre, in ricordo della Deposizione del Martire sotto l’altare della Cattedrale avvenuto nel 1108.

Si sa che gli scavi in Cattedrale furono continuati un secolo dopo da Monsignor Fabrizio Borgia, durante la risistemazione della Cappella di S. Ambrogio, il quale, il 17 ottobre 1747, subito sotto il piano dove erano stati poggiati i tre vasi nel 1639, trovò la cassa di pietra con il grosso delle reliquie del Martire.
I notai Giovan Battista e Antonio Crocco stesero una relazione per allestire, il 6 aprile 1748, un regolare processo di canonizzazione. Le Reliquie del Martire intanto furono deposte in un’urna di pietre scelte messa in vista sotto il nuovo altare che era stato fatto costruire da Monsignor Chierichelli (1694-1718).

Nel 1641 si fece anche la domanda per avere sette giorni di fiera, dall’1 al 7 Maggio di ogni anno.
Si pensò subito anche ad una statua, ideata, però, come reliquiario, per contenere parte delle Sacre Ossa del Santo, come in realtà è stato fatto.
Essa fu commissionata al valente argentiere romano Fantino Taglietti nel 1640 e l’anno seguente la Civica Amministrazione poté già darla in consegna ai canonici della Cattedrale: fu benedetta dal Vescovo Monsignor Ennio Filonardi il 30 Aprile 1641.

I Ferentinesi vollero che la statua rappresentasse S. Ambrogio come era raffigurato nel quadro attribuito al Cavalier d’Arpino, che era nella Cappella a lui dedicata. Lo vediamo a cavallo, in trionfo sulla morte subita, mentre sostiene un vessillo che reca l’emblema di Ferentino, simbolo della gloria, così come venivano accolti a Roma i condottieri che tornavano da imprese vittoriose.
Una simbologia in contrasto con la statua di S. Ambrogio che è situata sul Duomo di Milano, che ci mostra il Santo nel tipico atteggiamento del martire, mentre subisce la sua passione, legato, contorcendosi nelle membra e nel busto.

Nel 1727, nella seduta consiliare del 31 agosto, il Comune di Ferentino aveva stanziato la somma di 50 scudi per rifare lo zoccolo che sosteneva la statua di S. Ambrogio: il progetto però, presentato anche alla Congrega del Buon Governo, non fu portato a termine.

Nel 1729 fu creato Vescovo di Ferentino Monsignor Fabrizio Borgia, da Velletri. Fin dalla sua prima visita pastorale fatta alla Chiesa Cattedrale, avendo notato che la statua di S. Ambrogio veniva esposta “sopra una macchina di legno del tutto indecente, talmente che impossibile affatto si rendeva poterla portare secondo il solito, processionalmente per la città, nel giorno della di lui festa“, diede disposizioni di provvederne una nuova.

Nella seduta consiliare del 6 maggio 1731, Filippo Antonio Anitosi, riferendo la decisione presa dal Vescovo, perorò la causa che fosse il Comune ad accollarsi l’onore e l’onere di rifare la nuova macchina, dato che essa serviva come ornamento alla statua, che era stata voluta dalla Comunità nel 1640. Seduta stante fu stanziata la somma di 250 scudi d’argento, che si poteva ricuperare dai “sopravanzi delle spese” per l’anno in corso.
Fu inviata la delibera con unito bozzetto della nuova macchina alla Delegazione Apostolica in Frosinone, la quale, a sua volta, in data 13 maggio 1731 la trasmise alla Santa Congregazione del Buon Governo in Roma per l’approvazione.

Ma, ancora una volta la pratica restò insabbiata e passò ancora qualche altro anno, tra alterne vicende e alla ricerca di un valente scultore. Data però l’urgenza dell’opera e visto che il Comune non riusciva ad affrontare la spesa, il Vescovo Borgia decise di risolvere la questione personalmente. E così in data 4 marzo 1735, si addivenne alla stesura dell’atto notarile, rogato dal notaio Simone Giovannoni.
Alla presenza dei due testimoni Don Fausto Cortese e Vittorio Bovieri, il Sig. Filippo Cianfarani, intagliatore, si impegnava a costruire la macchina di S. Ambrogio a nome e per conto dei cittadini di Ferentino, rappresentati da due persone delegate dal Vescovo: Filippo Stampa ed il canonico Don Ermenegildo De Angelis, vicario generale, i quali lo stesso giorno ricevevano anche la facoltà di far raccogliere le offerte tra la popolazione di Ferentino.

La macchina di S. Ambrogio fu realizzata nella sua bottega del Cianfarani, in Piazza della Chiesa Nuova a Roma.
A distanza di tanti anni ci sono stati documentati due soli restauri della macchina: l’uno avvenuto nel 1905 a spese del Comune, in occasione della commemorazione dei 1600 anni dalla morte di S. Ambrogio; l’altro promosso dal Sindaco e Presidente del Comitato Francesco Gargani il 16 Agosto 1982 con una pubblica sottoscrizione dei cittadini, aperta con i contributi del Comune, del Capitolo Cattedrale e della Pro Loco. Era accaduto infatti il furto, nella notte tra il 29 ed il 30 agosto 1979, di otto putti, due scudi con lance e trombe, una armatura da guerriero e l’arme di Ferentino.

Non si sa, invece, che fine abbia fatto una statuina di S. Ambrogio, in metallo prezioso, con scritte e dediche, opera dell’artista Filippo Borgognoni, che la Comunità locale donò al papa Gregorio XVI, quando venne in visita a Ferentino il 3 Maggio del 1843.

Nel 1904 quando, dopo i lavori di restauro della Basilica, nella stessa ricorrenza del 29 dicembre il Vescovo Domenico Bianconi (1897-1922) ricompose nuovamente le reliquie sotto l’antico ciborio, dove si trova attualmente.

La devozione a S. Ambrogio lungo il corso dei secoli non si è mai affievolita. La Comunità cristiana di Ferentino ha sempre celebrato il 16 Agosto, come è riportato negli antichi calendari liturgici. Anzi, il suo culto è andato sempre più aumentando, soprattutto da quando, dopo aver legato con fierezza il suo nome a quello della città, ne è diventato l’emblema e il patrono.
Nell’invocazione di Ambrogio si sono aperte sedute consiliari, alla sua sicura intercessione si sono affidate le sorti della città durante invasioni ed epidemie, ed al grido del suo nome i soldati ferentinati hanno saputo trovare la forza per scrollarsi di dosso gli orrori delle guerre mondiali.
In un solo caso, nell’ormai lontano 1944, Sant’Ambrogio non poté uscire per la consueta processione: il Santo aspettò che i suoi giovani incollatori tornassero fino al 14 Ottobre, quando fu accompagnato ugualmente nello scialbo scenario delle macerie, tra mogli e mamme vestite di nero.

 

Papa Celestino V.

Celestino VPietro di Angelerio nacque ad Isernia attorno al 1209-1210, undicesimo di una famiglia di dodici figli. La prima tappa della sua avventura cristiana coincise con l’ingresso nella Badia di S. Maria di Faifoli, dove venne istruito secondo la regola benedettina. Cominciò la sua vita di anacoreta benedettino sulle falde del Monte Porrara, dove ore sorge l’eremo di Madonna dell’Altare. La vita aspra condotta su questo monte incarnò l’esigenza religiosa di un cristianesimo, che voleva essere ritorno alla purezza apostolica delle origini.

Una volta “forgiatosi” sul Monte Porrara e ordinato sacerdote, Pietro di Angelerio iniziò una grande opera di riconquista alla Chiesa delle genti delle aree montane. La Maiella venne utilizzata come palestra di vita per le anime semplici dei suoi seguaci, divenuti in breve tempo un piccolo esercito, che conquistò il sud della penisola italiana percorrendo gli assi viari delle zone agro-pastorali.

Nel lungo viaggio per ottenere il riconoscimento del suo Ordine, i Fratelli dello Spirito Santo, da papa Gregorio X (Concilio di Lione, 1275), Pietro di Angelerio, ormai noto come Pietro del Morrone, diventò il personaggio più in vista del momento, per le sue virtù taumaturgiche e per l’ideazione dei primi rudimentali servizi di solidarietà sociale: ospizi, mense per i poveri, accoglienza e soccorso ai viandanti. L’Ordine dei Fratelli dello Spirito Santo, la cui casa madre era a Sulmona, si diffuse in Italia ed in Europa: Abruzzo, Lazio, Campania, Puglie, Belgio, Inghilterra.

Anche i laici furono coinvolti nel movimento di Pietro del Morrone. Il connubio tra l’organizzazione monastica e le genti si configurò come una società in cui l’individuo riacquista fiducia in se stesso e negli altri e si sente sicuro di bene operare e sperare. Le “Fraterne”, come quelle istituite ad Isernia, realizzarono rapporti tra gli individui basati su onestà, lealtà. solidarietà cristiana, azioni concrete nel campo dell’assistenza ai più deboli.

Il 4 aprile 1292 moriva a Roma Papa Nicolò IV. Il sacro Collegio, composto da dodici cardinali, si riunì numerose volte senza, però, mai raggiungere un accordo sul nome del nuovo Pontefice, finché il 6 aprile 1294, il re di Napoli Carlo II d’Angiò passando per Sulmona, cercò un incontro con l’eremita del Monte Morrone. Conseguentemente a quell’incontro, ci fu una lettera che Pietro inviò ai cardinali dicendo loro di affrettarsi a nominare il nuovo Papa, altrimenti lo sdegno divino li avrebbe colpiti.

Il 5 luglio 1294, trascorsi ventisette mesi dalla morte del pontefice Nicolò IV, i cardinali esaminarono la lettera dell’eremita, e trovarono concordia proprio sul nome di Pietro del Morrone. Il 17 luglio, tre cardinali e i notai della Sede Apostolica, si recarono sul monte Morrone per consegnare all’eremita il Decreto della sua elezione a Pontefice, e per informarlo che lo attendevano a Perugia.

Pietrò spedì una lettera dicendo che non era in grado di affrontare un così lungo viaggio nella calura estiva, e che si sarebbe recato all’Aquila. Senza attendere risposta si mise in viaggio con Carlo, re di Napoli, con il re d’Ungheria Carlo Martello, figlio del re di Napoli, con il cardinale Pietro Colonna e numerosi prelati e uomini di Chiesa. Il corteo giunse nel capoluogo abruzzese il 25 luglio: lì Pietro ricevette un’altra lettera del Sacro Collegio con la quale i cardinali facevano notare che la consacrazione del nuovo Pontefice non poteva avvenire al di fuori dello Stato della Chiesa. L’eremita pregò i cardinali Ugo di Alvernia e Napoleone Orsini di riferire che lui non era in condizione di proseguire il viaggio, e i cardinali dovettero cedere alla volontà espressa dal nuovo Pontefice. Così la sera del 29 agosto 1294, nella Chiesa di Collemaggio, Pietro venne consacrato vescovo di Roma con il nome di Celestino V.

La Perdonanza fu il primo, inaspettato atto del nuovo Pontefice, emanato nella città dell’Aquila il 29 settembre 1294, un mese dopo l’incoronazione papale. Celestino V volle “assolti da ogni pena e da ogni colpa tutti coloro che, veramente pentiti e confessati, avrebbero visitato la Chiesa di S. Maria di Collemaggio nell’annuale ricorrenza della Decollazione di S. Giovanni Battista, dal vespro del 28 al vespro del 29 agosto”.

Non si trattò solo della remissione dei peccati e della pena temporale, ma di una vera e propria riconciliazione sociale. I problemi, che si posero davanti a Celestino V, furono tanti e in buona parte di natura politica. Le costrizioni morali esercitate da re Carlo II d’Angiò obbligarono Celestino a trasferirsi a Napoli e non a Roma. Nella capitale del Regno Angioino il Pontefice si sentiva sempre più prigioniero, costretto a subire le pressioni del potere politico e di quello dei cardinali e della Curia pontificia. In questa atmosfera nella mente di Celestino maturò il proposito di abdicare, codificando questa sua decisione in una bolla che ne rendesse valido il principio e che potesse servire nel futuro per qualsiasi successore, e chiese al cardinale Benedetto Caetani, esperto in diritto canonico, se a suo giudizio poteva rinunciare al suo incarico.

Celestino V, il 6 dicembre convocò il Concistoro e comunicò ai cardinali la sua incapacità nel governare lo Stato della Chiesa, e il 13 dicembre lesse la “bolla” con la quale sanciva il diritto del Papa a rinunziare e dei cardinali di accettare tale rinunzia. Il 23 dicembre i cardinali si chiusero in conclave e dopo solo tre scrutini elessero papa il cardinale Benedetto Caetani, che prese il nome di Bonifacio VIII.

L’abdicazione di Celestino V avvenne nel Concistoro del 13 dicembre 1294. Dopo l’abdicazione si aprì per lui il capitolo più tempestoso della sua vita. Il suo intento di tornare nell’eremo del Monte Morrone venne osteggiato dal nuovo papa, il cardinale Benedetto Caetani, Bonifacio VIII, che decise di portare Celestino con sé a Roma al fine di tenerlo sotto controllo, per evitare che qualcuno potesse abusare della sua semplicità e spingerlo a compiere errori.

Simulando la partenza, Celestino fuggì da Sulmona e si diresse in Puglia. Il tentativo di fuga ebbe termine a Vieste, in Puglia, dove i messi papali lo raggiunsero e lo fecero prigioniero mentre tentava di imbarcarsi per la Grecia. Dopo aver chiesto inutilmente di essere liberato e dopo aver trascorso due mesi ad Anagni, Celestino nell’estate del 1295 venne rinchiuso nella rocca di Fumone, dove trascorse gli ultimi dieci mesi della sua vita. Celestino morì il 19 maggio del 1296; la sua salma venne tumulata il 21 maggio dello stesso anno in S. Antonio abate di Ferentino, cenobio che lui stesso aveva fondato tra il 1250 e il 1260. Il corpo venerato rimase in S. Antonio abate Fino al 1330, anno in cui venne traslato nell’Abbazia di Collemaggio all’Aquila, dove tuttora è custodito. A Ferentino rimase l’insigne reliquia del suo cuore incorrotto.

Come attestano le fonti, S. Antonio abate fu il primo cenobio fondato da Pietro Celestino fuori nella regione abruzzese nelle nostre zone, e costituì il fulcro avanzato della penetrazione dell’Ordine celestino nel territorio laziale. In una lapide di marmo al centro del pavimento della chiesa di S. Antonio Abate, è inciso lo stemma del defunto pontefice. Sotto lo stemma vi è un foro per vedere il sottostante sarcofago in cui riposò il corpo di S. Celestino dal 1296 al 1327.

Dal giorno della sua morte, avvenuta il 19 maggio 1296 nella rocca di Fumone ove, dopo la grande rinuncia, Celestino V era stato rinchiuso per timore di uno scisma da Bonifacio VIII “sotto la guardia di sei cavalieri e trenta uomini d’arme”, la città di Ferentino custodì la salma di Pietro Celestino fino al 1327, per 31 anni dopo la morte e per circa 15 anni dopo la canonizzazione avvenuta il 5 maggio 1313 da parte di Clemente V in Avignone.

Nel 1327 il corpo di Celestino V fu trafugato e l’occasione propizia fu offerta dalla lotta territoriale scoppiata tra Ferentino e la vicina città di Anagni.

Sotto la guida di Filippo, vescovo e cittadino di Ferentino, il clero estrasse il sacro corpo dal Monastero di S. Antonio, per deporre il corpo nella chiesa di S. Agata, sotto il controllo di soldati e due monaci celestiniani.
I monaci della chiesa di S. Antonio, privati del corpo di Pietro Celestino, ne scrissero al Padre Visitatore Generale, allora residente a Sora, il quale riuscì a recuperare le sacre reliquie con uno stratagemma: trafugate nottetempo le ossa del Santo Padre dalla cassa sigillata che era custodita a S. Agata, esse furono raccolte in un panno di lino e avvolte in un materasso che, posto in testa a una robusta donna, fu mandato al monastero di S. Antonio, fingendo con i soldati della guardia che il materasso della guardia servisse per il Visitatore.
Le ossa quindi furono immediatamente trasportate a L’Aquila, nella basilica di S. Maria di Collemaggio.

Le Storie locali narrano la dolorosa sorpresa che ebbero autorità, clero e cittadini ferentinati, quando si recarono presso il sepolcro con la segreta speranza che le reliquie del Santo fossero ancora là e, invece, lo trovarono vuoto.
Le cose non sarebbero passate lisce se il Vescovo di Ferentino, disceso nel sepolcro, non avesse calmato le ire dei ferentinati annunciando di avere ritrovato nel sacello vuoto il cuore del Santo, rimasto miracolosamente conservato, quasi a confermare la promessa che più volte Pietro Celestino aveva fatto ai cittadini di Ferentino, dicendo loro che, se Egli partiva, il suo cuore sarebbe rimasto con essi. La reliquia insigne fu portata processionalmente in città e affidata alle monache di S. Chiara.

Il 19 maggio 1637 il Consiglio Comunale di Ferentino stabilì di chiedere a Urbano VIII l’istituzione di una fiera esente da gabelle da effettuarsi nella ricorrenza solenne del dies natali di Celestino V (19 maggio).
La Città di Ferentino il 20 dicembre 1642 chiese alla Congregazione del Buon Governo la ratifica della festa del 19 maggio che già il Comune celebrava solennemente in onore di Celestino V.
Per accertare la continuità del culto verso il santo Pontefice, venne inviato a Ferentino il 4 giugno 1683 il cardinale Nicola Ludovisi come visitatore apostolico: i Celestini infatti non risiedevano più nel monastero di S. Antonio e quindi sia il complesso monastico sia le sacre reliquie di Pietro Celestino, ivi conservate, erano “in posse et manibus laicorum” col pericolo di negligente custodia.
Il cardinale Ludovisi, ispezionando la chiesa e il cenobio di S. Antonio abate, vi rinvenne numerose reliquie del Pontefice e specialmente notò un crocifisso ligneo, assai deteriorato dai tarli, davanti al quale Pietro del Morrone era solito pregare.

Il 2 febbraio 1703 la comunità ferentinate sperimentò il potente intervento di Celestino V, suo avvocato, per la protezione con la quale salvò la città da un tremendo sisma: per perenne ringraziamento, su sollecitazione del Vescovo Valeriano Chierichelli, il 21 febbraio del medesimo anno il consiglio comunale di Ferentino stabilì di donare 5 libbre di cera ogni anno nella festa di S. Pietro Celestino e di supplicare il Papa affinché rendesse “di precetto” una tale solenne ricorrenza.

Nell’autunno del 1968, in occasione di straordinarie commemorazioni celestiniane, le venerate spoglie sono tornate a Ferentino dove furono esposte e onorate, per alcuni giorni, nelle chiese di S. Agata, nella chiesa Cattedrale e nella chiesa di S. Antonio Abate.

La perdonanza di Papa Celestino V.
“L’uomo nuovo” è caratterizzato dalla volontà di regalare la vita partendo dal perdono, da chiedere e da dare. Prima di tutto a se stessi. La Perdonanza è un’esperienza di vita che consente a tutti di divenire persone nuove.
Istituita da Celestino V nel giorno della propria incoronazione papale (29 Agosto 1294), la Perdonanza è la remissione completa di ogni colpa e di ogni pena, concessa a tutti coloro che riconoscono i propri peccati come un male, li confessano nel sacramento istituito da Cristo, visitando la Basilica di Collemaggio.
La liberazione dal male, o colpa, e dalle conseguenze dei propri errori, o pena, viene indicata e donata come linfa di vita personale e sociale autentica.

La Bolla della Perdonanza aquilana così recita:

“Celestinus episcopus, servus servorum Dei, universis Christifidelibus presentes litteras inspecturis, salutem et apostolicam benedictionem. Inter sanctorum solemnia, S. Iohannis Baptistae memoria eo est solemnius honoranda, quo ipse de alvo sterilis matris procedens, fecundus virtutibus, sacris eulogiis et facundus fons, apostolorum labium et silentium prophetarum in terris Christi presentiam, caliginantis mundi lucernam ignorantiae obtectis tenebris, verbi preconio et indicis signo mirifico nuntiavit, propter quod eius gloriosum martyrium mulieris impudicae indictum, intuitu misterialiter est secutum. Nos, qui in ipsius Sancti decollatione Capitis, in ecclesia sancte Marie de Collemayo Aquilensi Ordinis S. Benedicti, suscepimus diademate, impositum capiti nostro, insigne, hymnis et canticis ac fidelium devotis dicta ecclesia precipuis extollatur honoribus et populi Domini devota frequentia tanto devotius et ferventius honoretur, quanto inibi querentium. Dominum supplex postulatio gemmas ecclesiae donis micantes spiritualibus sibi reperiet in eternis tabernaculis profuturas, omnes vere penitentes et confessos, qui a vesperis eisdem festivitatis vigilie usque ad vesperas festivitatem ipsam immediate sequentes ad premissam ecclesiam accesserint annuatim, de omnipotentis Dei misericordia et beatorum Petri et Pauli, apostolorum eius, auctoritate confisi, a baptismo absolvimus a culpa et pena, quam pro suis merentur commissis omnibus et delictis. Datum Aquile, III Kalendas octobris, pontificatus nostri anno primo”.

“Celestino vescovo, servo dei servi di Dio, a tutti i fedeli di Cristo che vedranno questa lettera, porge il saluto e l’apostolica benedizione. Tra le feste dei santi tanto più solennemente deve onorarsi la memoria di san Giovanni Battista in quanto egli, nascendo dal grembo di una donna sterile, fecondo di virtù, di santi doni, fonte feconda della parola degli apostoli e silenzio dei profeti, annunciò con pubblici discorsi e col segno meraviglioso del suo indice la presenza di Cristo in terra, luce del mondo immerso nelle tenebre dell’ignoranza, per la qual cosa seguì misteriosamente il suo glorioso martirio, imposto dalla volontà della donna impudica. Noi, che nel giorno della Decollazione di cotesto santo, nella chiesa aquilana di Santa Maria di Collemaggio dell’ordine di san Benedetto, ricevemmo l’insegna del diadema impostoci sul capo, desideriamo che questa chiesa sia ancora più onorata e venerata con inni e canti e con le preghiere devote dei fedeli. Perciò, affinché in questa stessa chiesa la festa della Decollazione del Battista sia elevata ad onori speciali con la devota frequenza del popolo del Signore e tanto più devotamente e assiduamente sia onorata, quanto più la semplice invocazione di coloro che si rivolgono al Signore lì trovi i gioielli della Chiesa risplendenti di doni spirituali che giovino a essi nei tabernacoli della vita eterna, tutti coloro che saranno veramente pentiti dei peccati confessati e che dai vespri della vigilia della festa fino ai vespri immediatamente seguenti la festa stessa ogni anno entreranno nella predetta chiesa, assolviamo da ogni colpa e pena che meriterebbero per i loro delitti e per tutto quel che commisero a partire dal battesimo, per la misericordia di Dio onnipotente, e confidando nell’autorità dei santi Pietro e Paolo, suoi apostoli.
Dato all’Aquila, il 29 settembre del primo anno del nostro pontificato”.

 

Madre Caterina Troiani.

Madre Caterina TroianiCaterina Troiani, al secolo Costanza, originaria di Giuliano di Roma, era entrata nel conservatorio di Ferentino ad appena di sei anni, il 18 luglio 1819, vittima di una grande tragedia familiare: era rimasta orfana della madre, probabilmente uccisa dal marito, che per questo misfatto scontò molti anni di carcere.
Maturata una profonda vocazione religiosa Costanza Troiani l’8 dicembre 1829 prese l’abito religioso, assumendo il nome di suor Maria Caterina di S. Rosa da Viterbo. Sempre nel 1829 Suor Caterina, prescelta dal vescovo Lais, fu nominata maestra nella scuola “particolare”, attivata per le educande interne e per le alunne provenienti da famiglie agiate; ma la Suora impresse alla scuola una svolta importante, insegnando a tutte le alunne senza distinzione di censo e grado sociale a leggere e scrivere.
Suor Caterina applicava un piano didattico che comprendeva l’istruzione e la pratica della religione, il lavoro (rammendo o ricamo), la lettura, la scrittura, la calligrafia, il far di conto, “l’attività di vita pratica” (economia domestica). Promosse e potenziò per le Educande anche l’attività pratica, utilizzando l’opificio di cotoni tessuti, che era stato attivato dal 1843 dietro impulso del vescovo mons. Antonucci “acciò le fanciulle scolare, nel tempo libero dallo studio, potessero apprendere tal lavoro e trattenersi a lavorare invece di girare e vagare per la Città”. In un primo momento le giovinette vennero addestrate alla tessitura di tele grossolane, poi, perfezionandosi nell’arte della tessitura, giunsero a tessere persino la tela fina per fazzoletti. Annesso all’opificio dei telari era anche il laboratorio di ricami e merletti, preferibilmente per paramenti sacri; le fanciulle erano impegnate anche nella confezione di fiori artificiali e di immagini sacre in cartapesta o cera (in quest’arte era molto esperta madre Aloisia Castelli).
Suor Caterina fu maestra impareggiabile non solo per la grande perizia didattica, ma anche per la pazienza che usava nella pratica dell’insegnamento. La prassi pedagogica della Troiani era lontana da ogni teorizzazione. I suoi capisaldi erano: la promozione umana, la formazione cristiana, la prevenzione del male, il primato dell’amore, l’avvio all’apprendimento di un mestiere. Il suo interesse primario è la vita religiosa e l’adesione alla regola francescana, interesse da cui non disgiunge una viva passione per la scuola, per l’educazione della gioventù e della donna, in particolare, tanto da impegnarsi, non solo in Ferentino (1829-1859), ma anche in Egitto (1859-1887) in un’opera di promozione e liberazione della donna attraverso l’educazione e la cultura.

La vocazione ascetica e claustrale di suor Caterina ad un certo punto ebbe una conversione: la riflessione sul tema della Redenzione la spingeva a desiderare di “portare” la Redenzione fuori delle mura del monastero, nel mondo, tra quei popoli d’oltremare che Dio le aveva fatto conoscere già dal 1835 con una chiamata specialissima.
padre-giuseppe-maria-modena-1.JPGPer realizzare il dono di Dio occorreranno 24 anni di attesa dolorosa ma feconda di opere: il Signore forma Caterina come missionaria attraverso la sofferenza, la purificazione interiore, il buio della fede. L’anelito missionario, che si faceva sempre, più forte spinse Suor Caterina a progettare prima una missione in Inghilterra, poi a Gerusalemme (Terra Santa); infine, grazie all’incontro con Padre Giuseppe Modena, del convento francescano di S. Agata in Ferentino, l’ideale missionario di Caterina si definì: la nuova missione doveva sorgere in Egitto al Cairo dove servivano maestre per la scuola femminile.
La prospettiva missionaria si realizzò nel 1859 dopo un lungo iter burocratico. Il drappello di missionarie animate da suor Caterina e guidate dalla badessa Aloisia Castelli, partite da Ferentino nell’agosto del 1859, arrivò al Cairo il 14 settembre dello stesso anno. Le due più strenue sostenitrici della clausura, suor Caterina e madre Aloisia, si erano trasformate in genuini spiriti missionari. Da questo momento inizia la pagina più esaltante della vita di Suor Caterina Troiani. Nella missione suor Caterina promosse svariate opere: la scuola per le fanciulle, il riscatto delle morette dalla schiavitù, l’accoglienza dei bambini abbandonati, la cura degli ammalati.
Nel 1863 da Ferentino giunse la richiesta di abbandonare la missione e di ritornare in patria. Suor Caterina rimase al Cairo, addolorata per lo strappo doloroso dalla casa madre, ma convinta che era nata una nuova pianticella da coltivare per la gloria di Dio e per il bene delle anime. Lo strappo si ricucirà nel 1896 quando il monastero ferentinate si unirà alla casa d’Egitto, professando la Regola delle Terziarie Francescane, regola scritta da Madre Caterina Troiani e approvata dalla Chiesa nel 1876. “Il ramo di Anticoli divenuto tronco a Ferentino, ridiventava ramo del proprio ramo divenuto tronco in Egitto” (Michele Colagiovanni).
Suor Caterina morì a Clot-Bey in Egitto il 6 maggio 1887. Visse quarant’anni in Ferentino e quarant’anni al Cairo. Claustrale seppe rinnovare e vivificare la sua chiamata religiosa divenendo missionaria. Nel chiostro fu missionaria e nella missione non tralasciò la contemplazione. Donna forte di Ciociaria lottò per l’emancipazione della donna seguendo il Vangelo, Francesco d’Assisi e donando amorevolmente l’istruzione: “anziché attendere a fare cose degne da scriversi, preferì scrivere cose degne da farsi”.

 

Don Giuseppe Morosini, Medaglia d’Oro al Valore Militare.

Don Giuseppe MorosiniSacerdote di alti sensi patriottici, svolgeveva – dopo l’ armistizio dell ‘8 Settembre 1943 – opera di ardente apostolato fra i militari sbandati, attraendoli nella banda di cui era cappellano. Assolveva delicate missioni segrete, provvedendo altresì all’acquisto ed alla custodia d’armi. Denunciato ed arrestato, nel corso di lunghi ed estenuanti interrogatori, respingeva con fierezza le lusinghe e le minacce dirette a fargli rivelare i segreti della Resistenza.
Celebrato con calma sublime il Divino Sacrificio, offriva il giovane petto alla morte.
Luminosa figura di soldato di Cristo e della Patria.
Roma, 8 Settembre 1943 – 3 Aprile 1944.

Don Giuseppe Morosini proveniva da una famiglia di Ferentino numerosa, profondamente cristiana.
Prima di entrare nella Congregazione di San Vincenzo, studiò nel Seminario di Ferentino, nei pressi del quale abitava.
Si sentiva chiamato al sacerdozio, ma non al ministero diocesano e tanto meno alla vita canonicale: voleva infatti diventare missionario. Dopo i due anni di noviziato a Roma venne mandato al Collegio Alberoni di Piacenza per proseguire gli studi. Completò i corsi teologici al Leoniano, e il Sabato Santo dell’anno 1937 venne consacrato Sacerdote da Monsignor Luigi Traglia, presso San Giovanni in Laterano.

Desiderava diplomarsi in composizione e direzione d’orchestra, collaborava alla riuscita delle manifestazioni religiose con le sue musiche, come quella scritta per il secondo Congresso Eucaristico della Diocesi Ferentino tenuto a Ceccano, con processione dal Santuario di S. Maria a Fiume alla Collegiata di S. Giovanni.
Nell’aprile del 1939 si celebravano solenni festeggiamenti per il ventennio della parrocchia del Quadraro: anche Don Rey, il sacerdote definito da Pio XII “il parroco delle trincee“, pregò Don Morosini di curare la esecuzione delle musiche liturgiche.

Nominato Assistente Ecclesiastico dell’Istituto Marcantonio Colonna si consacrò alla formazione cristiana di quegli studenti.
Nel 1941 fu cappellano militare del 4º reggimento d’artiglieria di stanza a Laurana, ora in Croazia ma all’epoca in provincia di Fiume. Nel 1943 fu trasferito a Roma. Qui assisteva i ragazzi sfollati dalle zone colpite dal conflitto che erano alloggiati nella scuola elementare Ermenegildo Pistelli, situata nel quartiere Della Vittoria. Pregato di prestare la sua opera nella direzione della Scuola, Don Giuseppe accettò subito di buon grado, ma il 25 luglio i gerarchi, che erano a capo dell’Opera, fuggirono portando via quanto più potevano dei viveri destinati ai ragazzi.

Il 10 ottobre 1943 venne pregato di assistere spiritualmente una banda di partigiani dislocata a Monte Mario. Si recava nei loro nascondigli una volta la settimana per celebrarvi la Santa Messa. Presto però s’accorse che l’assistenza religiosa non bastava. Avevano bisogno di tutto: di scarpe, di vestiario, di viveri ed anche di armi. Don Giuseppe si sforzava di procurare loro tutto sicché si trovò, quasi senza accorgersene, partigiano. Era in contatto con la “banda Fulvi”, comandata da un ufficiale dell’esercito italiano, il tenente Fulvio Mosconi, gruppo che era attivo a Monte Mario, e dipendeva da Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo.
Del partigiano aveva il coraggio. ma non la stoffa: era troppo ingenuo, non sapendo discernere il partigiano vero dal falso. Con Bucchi, suo studente dell’Istituto Tecnico Marcantonio Colonna, trovò un gruppo di partigiani autentici, nel quale però si erano intrufolati alcuni traditori.

Ottenne da un ufficiale della Wehrmacht il piano delle forze tedesche sul fronte di Cassino, ma, segnalato da un delatore – un certo Dante Bruna, infiltrato dalla Gestapo tra i partigiani di Monte Mario, che fu ricompensato con 70.000 lire – fu arrestato dalla Gestapo il 4 gennaio del 1944 mentre raggiungeva il Collegio Leoniano in via Pompeo Magno 21, in Prati insieme all’amico Marcello Bucchi. Fu detenuto a Regina Coeli nella cella n. 382. Morosini venne accusato oltre che di aver passato agli Alleati la copia della mappa del settore difensivo tedesco davanti a Cassino, anche del possesso di una pistola, rinvenuta tra la biancheria, e del deposito di armi ed esplosivi nascosto nello scantinato del Collegio Leoniano.

Nel carcere si trovava con Epimenio Liberi, un commerciante ventitreenne nativo di Popoli che aveva partecipato ai combattimenti di Porta San Paolo e che era entrato nelle resistenza nelle file del Partito d’Azione. La moglie era in attesa del terzo figlio. I due strinsero amicizia e don Morosini scrisse in carcere per il bambino che doveva nascere, una celebre Ninna Nanna per soprano e pianoforte. Liberi fu fucilato alle Fosse Ardeatine il 24 marzo.
Italo Zingarelli, altro carcerato, scrisse di lui:

“Ha echeggiato nell’androne, sonora e ferma, la voce di Don Giuseppe Morosini, che, fra i condannati a morte in attesa dell’esecuzione, è il più popolare. Don Morosini la voce dell’Apostolo ce l’ha. Ora il padrone delle carceri è lui, può gridare che nel primo mistero glorioso si contempla la risurrezione di Cristo e quindi intona il Lodato sempre sia il Santissimo Nome di Gesu, Giuseppe e Maria. Lui, che intercala nel Rosario, all’improvviso, una frase che suona come uno squillo di tromba e una sfida: “Preghiamo per la nostra cara Patria“, “Preghiamo per coloro che soffrono, non soffriamo soltanto noi di Regina Coeli“. E dopo il quinto mistero glorioso dice a noi con la stessa voce e con lo stesso accento: “Preghiamo per quelli che ci fanno soffrire“. Sono rientrato nella cella tutto sconvolto”.

Inutilmente, mentre Don Giuseppe continuava il suo apostolato sacerdotale in carcere, famiglia, superiori e colleghi lavoravano per la sua liberazione, finchè il 22 febbraio si celebrò il processo al tribunale germanico di Via Lucullo. Un processo puramente convenzionale, che non durò più mezz’ora: sia Don Morosini che Bucchi cercavano di assumersi tutta la responsabilità. La difesa di Don Giuseppe venne affidata ad un avvocato tedesco, residente da tempo in Italia, che attestò: “Nel mio lungo esercizio professionale non mi è mai capitato di assistere ad una scena simile: imputati che non solo non negano gli addebiti, ma quasi prendono gusto a rivendicare per sé la maggior responsabilità”. La conclusione fu sentenza di morte per Don Morosini e dieci anni di carcere per il Bucchi, da scontarsi in Germania.

Mentre Morosini era in attesa dell’esecuzione, la strage delle Fosse Ardeatine del 24 Marzo, nella quale vennero trucidati anche Marcello Bucchi ed Epimenio Liberi, lo scosse alquanto. Un ricorso di Pio XII allo stesso Hitler ebbe esito negativo.
Alle ore 4 del 3 aprile 1944, Lunedì Santo, Monsignor Bonaldi entrò nella cella 382 per la confessione generale.
Don Morosini ottenne di poter celebrare nell’infermeria del carcere.
Quando giunse il furgone i soldati volevano applicargli le manette, ma Monsignor Traglia si oppose energicamente. Giunti al Forte Bravetta il Sacerdote, baciando il Crocifisso, ringraziò il Santo Padre per quanto aveva fatto per lui e fu fucilato. Nel plotone di esecuzione composto da 12 militari della PAI (Polizia dell’Africa Italiana), all’ordine di “fuoco!” 10 componenti spararono in aria. Rimasto ferito dai colpi degli altri due, don Morosini fu ucciso dall’ufficiale fascista che comandava l’esecuzione con due colpi di pistola alla nuca.

Sandro Pertini, che era allora detenuto al carcere di Regina Coeli, lo incontrò dopo un interrogatorio delle SS. Pertini lasciò questa testimonianza a Roma, il 30 giugno 1969:

“Detenuto a Regina Coeli sotto i tedeschi, incontrai un mattino don Giuseppe Morosini: usciva da un interrogatorio delle S.S., il volto tumefatto grondava sangue, come Cristo dopo la flagellazione. Con le lacrime agli occhi gli espressi la mia solidarietà: egli si sforzò di sorridermi e le labbra gli sanguinarono.
Nei suoi occhi brillava una luce viva. La luce della sua fede.
Benedisse il Plotone di esecuzione dicendo ad alta voce: “Dio, perdona loro: non sanno quello che fanno”, come Cristo sul Golgota. Il ricordo di questo nobilissimo martire vive e vivrà sempre nell’animo mio”.

Il sacrificio di don Morosini è stato ricordato da un’emissione filatelica nel 1997. La città di Roma gli ha dedicato una piazza, Largo Don Giuseppe Morosini, nel quartiere della Vittoria.
Il don Pietro del film di Rossellini “Roma città aperta“, riassume le figure di don Giuseppe Morosini e di don Pietro Pappagallo, un altro sacerdote che partecipò alla resistenza romane e che fu ucciso alla Fosse Ardeatine.

 

Altri illustri ferentinati.

Altri illustri FerentinatiLo storico Sabellico narra che la famiglia dei Silvi, proveniente dall’Etruria, fu una delle più nobili di Ferentino: un Marco fu pretore di Roma ed il figlio Lucio, console.

Da Svetonio sappiamo che Flavio Liberale, gran tesoriere di Roma, fu Patrizio di Ferentino e padre di Flavia Domitilla, moglie dell’imperatore Vespasiano. Ricordiamo inoltre Lollia Paolina, moglie dell’imperatore Caligola.

Flavia Domitilla Maggiore (m. 69) fu la moglie dell’Imperatore romano Vespasiano (Tito Flavio Vespasiano). Figlia di Flavio Liberale, un questore, sposò prima un africano appartenente all’ordine equestre e poi, nel 38, il futuro imperatore. Diede alla luce Flavia Domitilla Minore, Tito e Domiziano, ma morì prima che Vespasiano assumesse il titolo.

Aulo Irzio, nato a Ferentino nel 90 a.C, censore di Caio Giulio Cesare dal 54 a.C. nel corso della conquista della Gallia. Durante la guerra civile tra Cesare e Pompeo combatté sotto le insegne cesariane in Spagna, forse come tribuno militare, e poi in Asia Minore. Fu pretore nel 46 a.C. e governatore della Gallia Transalpina nel 45 a.C. Cesare lo designò console nel 43 a.C. circa ricoprendo anche la carica di capo di stato maggiore e dopo l’assassinio del suo ex comandante, si trovò coinvolto nei torbidi della successiva guerra civile. Dapprima si schierò con Marco Antonio, ma poi, convinto dal suo amico Marco Tullio Cicerone, sposò la causa senatoria e si scontrò con Antonio, insieme a Pansa e a Ottaviano a Modena. Sebbene Antonio venisse sconfitto, Irzio e Pansa morirono in questo scontro nel 43 a.C. Autore dell’VIII Libro dei Commentari della Guerra Gallica lasciato incompleto da Cesare, fu amico di Cicerone, ma sebbene li legasse un’intensa amicizia, scrisse un libello contro il suo elogio in favore di Catone. Fu nominato insieme a Marco Lollio nell’iscrizione dell’Acropoli a Ferentino dove sono state rinvenute monete di entrambi i censori-consoli. ll suo sepolcro, è stato scoperto casualmente nel 1938, si trova sotto il palazzo della Cancelleria; attualmente risulta in gran parte sommerso dalle acque dell’Euripus, il canale che attraversava il Campo Marzio per sfociare nel Tevere. A fine 800 costruendo i muraglioni sul Tevere, furono ostruiti gli sbocchi dell’Euripus e di altri canali di scarico della zona, cosa che provocò l’innalzamento e il ristagno delle acque. Il sepolcro, tagliato in parte dalle fondazioni del Palazzo della Cancelleria, fu fatto costruire dopo l’eroica morte dei due consoli, Aulo Irzio e Vibio Pansa (43 a.C), il senato romano decretò che fossero eretti per loro due sepolcri nel Campo Marzio a spese pubbliche.

Marco Lollio
, il censore citato insieme ad Aulo Irzio nell’iscrizione dell’Acropoli, era di famiglia ferentinate, come fa supporre il suo tenimento nell’ager Ferentini – Lollianum – ora Giuliano di Roma. Una tradizione vuole che la famiglia Lolli discenda dal suo casato. Appartenente, dunque, alla Gens Lollia, homus novus dell’epoca augustea, faceva parte dell’aristocrazia cittadina dell’Antica Roma. Nato a Ferentino nel 54 a.C circa, ricoprì il Consolato nel 21 a.C., fu leale collaboratore dell’imperatore Augusto, cui dovette il successo della sua carriera. Iniziò la sua ascesa soprintendendo alla trasformazione del Regno di Galizia tra il 25 e il 24 a.C.; in seguito entrò a far parte dei quindecemviri insieme allo stesso imperatore e a Marco Vipsanio Agrippa. Combatté in Tracia (nel 19-18 a.C.) e poco più tardi, inviato in Gallia, subì una disastrosa sconfitta (clades lolliana del 17 a.C.) contro Sigambri, Usipeti e Tencteri, dove perse un’intera legione (la legio V). Nell’ 1 a.C. divenne compagno e consigliere di uno dei due eredi designati a succedere ad Augusto, Gaio Cesare, durante la spedizione in Armenia contro i Parti. Caduto in disgrazia – sembra per aver ricevuto doni dai principi orientali senza averne titolo, ma forse anche per aver osteggiato una riconciliazione tra Gaio Cesare e Tiberio – si suicidò – avvelenandosi – in Oriente nel 2 d.C.

Francesco Tebaldeschi
, priore di S. Pietro in Vincoli e Arciprete di S. Pietro in Vaticano, fu da Gregorio XI innalzato alla dignità cardinalizia. Questo cardinale, con la sua prudenza e dottrina, fu valido appoggio alla Cattedra di S. Pietro, nella quale sedeva Urbano VI, pericolante per lo scisma.

Rollando da Ferentino, uditore della Sacra Romana Rota, fiorì nel secolo XIII e fu tenuto in grande considerazione dal Papa Urbano IV.

Rinaldo Conti, Capitano dei Popolo di Ferentino, responsabile, con l’ emissario del re di Francia Guglielmo di Nogaret, dello “schiaffo di Anagni” contro papa Bonifacio VIII.

Pietro Guerra nell’anno 1267 fu innalzato alla dignità di Vescovo di Sora dal Papa Clemente IV, e nel 1278, dal papa Niccolo III, fu trasferito nel Vescovado di Rieti dove fece costruire il palazzo vescovile come si legge in una iscrizione dell’anno 1283 nello stesso palazzo. Più tardi, e precisamente nel 1286, fu nominato Arcivescovo di Monreale in Sicilia, e nel 1265, Patriarca di Aquileia.

Nativo di Ferentino è anche il celebre Filippo, che fu Vescovo della città, l’anno 1318. Sotto di lui fu fatta la traslazione del corpo di S. Pietro Celestino (Celestino V) dal monastero di S. Antonio Abate alla chiesa di S. Agata.

Aurelio Tibaldeschi era figlio di una sorella del Pontefice Giulio III; decorato della Croce di Malta, fu poi eletto Vescovo di Ferentino.

Tra gli umanisti si ricordano Martino Filetico, apprezzato per molti anni alle corti degli Sforza e dei Montefeltro, e Ambrogio Novidio Fracco, autore di un poema dedicato a Papa Paolo III.

Tra i dottori della medicina va ricordato Pietro Viviani che a tanta eccellenza salì in questa scienza da essere prescelto dal Papa Martino V quale suo archiatra, e confermato in tale ufficio dal successore Eugenio IV. L’anno 1420 il dottor Viviani ottenne dal Pontefice Martino V, a favore della sua Patria, che nel giorno di sabato fosse libero il mercato: consuetudine tuttora vigente; ottenne inoltre che si potesse esigere dai passanti un tassa per il mantenimento delle mura castellane e della città. Il Papa Eugenio IV creò il dottor Viviani Signore della Baronia e del castello di Porciano. Tale possesso fu donato dai Viviani ai Canonici della Cattedrale di Ferentino che l’ebbero legittimamente in uso fin dal 1870.

Oltre che essere culla di nobili ed illustri cittadini, Ferentino, per la sua breve distanza da Roma, fu onorata dalla presenza di eccelsi personaggi. La tradizione vuole che la città fosse onorata dalla visita degli Apostoli Pietro e Paolo, che vi avrebbero predicato il Vangelo ed istituito il primo Vescovo, chiamato Leone.

Favori ottenne la città da Giulia, madre di Cesare Ottaviano Augusto, molto opportunamente gli edili del secolo XVIII incastonarono una lapide sopra la porta S. Agata a ricordo di tali favori.

Il nome di Federico II è legato a quello di Ferentino in quanto nel 1223 si tenne un congresso tra l’Imperatore di Svevia e Papa Onorio III nella Cattedrale per discutere la situazione in Terra Santa e prendere accordi per la crociata. Nella stessa basilica cattedrale fu deciso il matrimonio dell’imperatore (rimasto vedovo di Costanza D’Aragona) con Jolanda, figlia del Re di Gerusalemme Giovanni di Brienne. Come testimonianza, sul portale della sagrestia della cattedrale sono presenti le testine di Federico II e del suocero con l’effige della civetta, simbolo di un corretto uso del potere.
Anche nell’Abbazia di Santa Maria Maggiore, nel portale laterale sinistro è presente una testina dell’Imperatore di Svevia che sostenne i restauri della suddetta abbazia e per questo la sua munificenza fu ripagata con l’inserimento della testina. La personalità dello stupor mundi è una delle più complesse della storia. Nato da padre tedesco e da madre normanna, egli ebbe la fierezza, la durezza e l’alterigia della razza germanica e l’ardire, lo spirito d’iniziativa e il temperamento avventuroso dei Normanni; cresciuto in Italia, fra gente di stirpe latina, greca ed araba, ebbe degli Italiani il senso pratico e positivo, dei Greci la scaltrezza e l’istinto della dissimulazione, degli Arabi la sensualità. Vissuto in un periodo di transizione, in un tempo in cui tramontò un’epoca e ne sorse un’altra, Federico è al contempo uomo medievale e moderno; può essere considerato come l’ultimo imperatore del Medioevo e il primo principe del Risorgimento. Altissimo fu il concetto della dignità imperiale e della propria autorità, ed è per questo che dedicò tutta la sua attività a quello che era lo scopo della sua vita e a quella che credette la sua missione: abbattere la teocrazia papale e dare alla potestà civile l’indipendenza e la supremazia; ma, a differenza degli imperatori che lo hanno preceduto, fu contrario all’ordinamento feudale e volle una monarchia quasi assoluta, in cui fosse accentrato il potere e, pur vivendo nell’ambito delle idee e dei princìpi della Chiesa, tese a studiare razionalisticamente i problemi della scienza e le verità della fede, e della religione non fece il fine ma lo strumento della sua politica; da ultimo Federico non fece, come gli altri sovrani tedeschi, il centro dell’Impero in Germania, ma stabilì questo in Italia e precisamente in Sicilia, e da qui governò i suoi vasti domini. Restaurare l’autorità regia in Sicilia, rendere la potestà imperiale indipendente dal Papato, abbattere i comuni e unificare l’Italia sotto lo scettro della casa Sveva: questo il programma politico di un uomo assertore di uno stato civile, svincolato da un’autorità religiosa invadente e troppo amante del potere terreno.

Nei secoli più vicini a noi, dobbiamo registrare la lunga permanenza (1203-1236) fatta dal Pontefice Innocenzo III il quale, tra l’altro, vi tenne solenni canonizzazioni e vi consacrò Vescovo il Canonico Alberto Longhi della cattedrale di Anagni.

Anche il Papa Onorio III vi fece una lunga permanenza e l’anno 1217 vi scrisse una lettera al Re d’Inghilterra sulla scarcerazione del cardinale Colonna di S. Prassede.

Urbano VI, nel 1388, nell’intraprendere un viaggio verso Napoli sua patria, si fermò a ferentino alcun tempo, e fu distolto dal suo proposito di proseguire, dagli stessi ferentinati, i quali lo sconsigliarono dall’esporsi ad eventuali affronti del re di Napoli Ladislao, onde il Pontefice fece ritorno alla sua sede di Roma.

Fino all’anno 1530 non pochi sovrani e pontefici onorarono Ferentino di loro presenza, tra cui Papa Martino V.

Alessandro III vi sottoscrisse la scomunica contro alcuni prelati d’Inghilterra e confermò nel 1170 l’ordine di S. Giacomo di Malta. Qui nel 1223, a un anno dall’incontro di Veroli dove aveva trattato la crociata, tennero congresso Papa Onorio III, Federico II Imperatore e Giovanni di Brienne Re di Gerusalemme.

Anche Luigi Re di Francia ed Ernesto Imperatore di Germania a Ferentino.
Luigi VII, Re di Francia dal 1137 al 1180, nel 1149 – di ritorno dalla disastrosa seconda crociata voluta dal Pontefice Eugenio III e da San Bernardo per recuperare la perduta contea di Edessa – si fermò a Ferentino per un po’ di tempo. Nulla vieta di pensare ad un’ospitalità da parte dei Monaci Cistercensi, anche se non si hanno fonti storiche che testimonino ciò. In quest’occasione il suddetto Re avrebbe portato la Sacra Sindone venerata in Oriente in Francia.

Non si dimentichino Gregorio de Montelongo, condottiero e legato pontificio presso la lega lombarda, che nel 1248 sconfisse l’imperatore Federico II nella battaglia di Parma. Ciociaro di Castello (territorio di Ferentino), nominato Legato Papale nel 1238 circa, capeggiò la coalizione guelfa contro la parte ghibellina, che faceva capo a Federico II. Prelato astuto e bellicoso maturato nella burocrazia romana, diplomatico capace delle trame più complesse al punto da mobilitare tutte le città fedeli perché inviassero soldati, attrezzature militari, vettovagliamento. La triade al governo del comune milanese, composta da Guglielmo da Rizolio, Gregorio da Montelongo e Leone da Perego, si dimostrò particolarmente combattiva contro le eresie ed efficiente nel pianificare la lotta. Nel 1239 i tre scesero in campo fianco a fianco con l’esercito milanese contro Federico II, che scrisse lamentandosi del fatto al re d’Inghilterra. Il 18 febbraio del 1248, segnò la sconfitta dell’imperatore Federico II, nella battaglia di Parma, da parte di Gregorio da Montelongo. In un primo tempo gli imperiali sembravano poter avere la meglio sugli avversari, ma successivamente Gregorio da Montelongo – ottenuta l’alleanza con Parma – riportò una netta vittoria. Federico II armò allora un potente esercito e strinse d’assedio Parma. Ma l’eroe ciociaro riuscì nell’impresa di rompere l’assedio e di trascinare le truppe al suo comando contro l’accampamento di Federico II, annientando gli imperiali e costringendo lo stesso imperatore ad una fuga precipitosa.

Martino Filetico, umanista, nato a Filettino nel 1430, venne a Ferentino per istruirsi nelle Lettere Classiche. Dopo aver compiuto gli studi a Roma entrò nell’Accademia di Pomponio Leto e, successivamente, si recò a Bisanzio per studiare la lingua greca. Tornato in Italia, per la sua fama di maestro e di umanista fu chiamato a Pesaro come precettore di Battista Sforza, figlia del Signore della Città. L’umanista continuò a curare l’educazione della discepola, divenuta la moglie di Federico di Montefeltro, Signore di Urbino.
Alla morte di Battista, lasciò Urbino e tornò a Roma per ricoprire l’incarico di docente di Latino e Greco nello Studium Urbis. Alla sua morte – avvenuta nel 1490 a Ferentino – Martino Filetico lasciò alla scuola ferentinate – attuale sede del prestigioso Liceo Classico e Scientifico nell’omonimo Palazzo Martino Filetico – una cospicua eredità, perché in essa venissero accolti ed educati gratuitamente i giovani poveri della città e del territorio. Fu sepolto nella chiesa di Sant’Antonio Abate.

Antonio Floridi nacque a Ferentino nella seconda metà del XV secolo. Laureatosi a Roma in utroque iure, diritto canonico e civile, ebbe una collocazione di primo piano nella struttura sociale del suo tempo. Secondo i documenti d’archivio, fu ammesso nell’amministrazione giudiziaria. Ferentino all’epoca era sede del Rettorato di Campagna e Marittima ed anche sede del tribunale che riceveva gli appelli dai tribunali locali: il Floridi vi esplicò le funzioni giudiziarie. Svolse anche funzioni notarili, che tra l’altro conferivano – a chi le esercitava – ambiti privilegi come per esempio quello di usufruire del titolo di dominus. Per le sue ottime qualità di giureconsulto, fu nominato governatore del feudo Colonna dell’omonima casata romana. È stato senza dubbio tra i più noti e prestigiosi notai e giureconsulti del ‘400-500 della Provincia di Campagna e Marittima.

Ambrogio Novidio Fracco nacque a Ferentino nel 1480. Anche se definito erroneamente come un umanista minore del Rinascimento, la sua poesia offre certamente aspetti di non trascurabile interesse, tanto che i ferentinati gli dedicarono anche una scuola media a lui intitolata. Compose varie opere, in particolare il poema Fasti stampato nel 1574 e dedicato a Papa Paolo III (1534-1549) , il quale ne ebbe l’esclusiva, ma iniziato sotto Leone X (1513-1521) con grande difficoltà riuscì a salvarlo durante il Sacco di Roma del 1527 nascondendolo nella casa del suo amico Rutulo. Nell’elegia De Adversis narra, appunto, le vicende del Sacco di Roma, i tradimenti della Francia, le incertezze di Papa Clemente VII (1523-1534) ed altro: per l’accurata descrizione le sue elegie hanno un carattere puramente storico. Tra i vari onori che conseguì vi fu anche quello di essere incoronato poeta in Campidoglio. Dopo aver soggiornato a Roma durante il Sacco ed essendo stato minacciato più volte dai Lanzichenecchi, decise di tornare a Ferentino.

Silvio Galassi, nato a Frosinone intorno al 1530, aveva studiato diritto ed era iuris utriusque doctor. Rimase presso la Curia Romana per diciassette anni portatovi dal Cardinale Cicala intorno al 1552-1553. Passò poi al servizio del nipote del cardinale e con lui si recò in Spagna dove rimase per ben due anni. Uomo di notevole cultura, nonché di profondo profilo morale e spirituale fu ben tenuto in considerazione da Papa Gregorio XIII (1532-1585). Il primo impatto con la Diocesi di Ferentino non fu facile per lui che aveva spesso ricoperto incarichi di curia ed aveva avuto esperienze di carattere giuridico anche se non erano mancate quelle di carattere pastorale. Non appena divenne Vescovo di Ferentino, mise in pratica ciò che aveva imparato in un lungo apprendistato ed il suo primo atto deliberativo fu la risoluzione della controversia sorta sul prezzo del grano dato a credenza dal canonico Giovanni Leonini. Durante tutto il suo episcopato cercò, infatti, di combattere l’usura e giunse a comminare la scomunica a chi approfittava dei beni ecclesiastici. Nell’archivio della Curia Vescovile di Ferentino è conservato un solo documento di Silvio Galassi: la sua visita pastorale del 1585: da questo documento emerge una situazione religiosa complessa e delicata, realtà comune a molte diocesi della zona, data la presenza di un clero molto spesso impreparato ed incapace di svolgere la sua missione. La suddetta visita pastorale era costituita da due parti: la prima dedicata alla conoscenza della situazione ferentinate; la seconda a quella della diocesi. Il Galassi sosteneva che il principale problema da risolvere era la formazione culturale e morale del clero e per raggiungere questo fine, sia durante la visita pastorale che durante tutto il suo episcopato, cercò di concretizzare gli indirizzi di riforma del concilio tridentino. Egli regolamentò le processioni, riorganizzò il comportamento dei canonici cercando di mitigare il suo forte legalismo con uno slancio tipico del riformatore e per questo non si occupò solo dell’applicazione delle norme, ma, appunto, del recupero canonico, interessandosi degli archivi ecclesiastici e della loro funzionalità. Ma tra le preoccupazioni del Vescovo quella maggiore riguardava il restauro e la conservazione dignitosa dei luoghi di culto. In ogni chiesa visitata il Galassi ordinò di ripararne arredi liturgici, rendendoli più decorosi, di apporre alle finestre speculas di tela cerata per evitare correnti di aria fredda. L’interno delle varie chiese venne ornato con immagini di Santi: in Cattedrale l’Annunciazione con una pittura per pictorem; l’abside di Santa Lucia con l’affresco raffigurante una scena della vita dell’omonima titolare; la cappella di Sant’Ambrogio della medesima chiesa con l’immagine del Martire tra altri Santi; la sagrestia di Santa Maria Maggiore con la raffigurazione di Cristo, della Madonna e di Sant’Ambrogio. Apportò, inoltre, restauri alle scuole, ai monasteri, ai conventi, nonché all’ospedale del Santo Spirito.

Figlio illustre della nobile casata del conte Pietro Stampa di Milano, Filippo Stampa fu saggio amministratore del Comune di Ferentino e dello Stato di Castro e del Ducato di Ronciglione. Coltivò gli studi e dedicò grande cura alla tutela del patrimonio della collettività anche attraverso la premurosa custodia delle carte d’archivio. Nella sua attività amministrativa fu animato da nobili ideali: rispettare la giustizia, assicurare il lavoro e non pregiudicare i diritti dei poveri. Sull’area del suo palazzo gentilizio, distrutto durante la Seconda Guerra Mondiale, sorge ora l’attuale Municipio.

Achille Giorgi (1824-1889) fu patriota, magistrato, primo sindaco di Ferentino (1871-1876), consigliere provinciale a Roma per il Circondario di Frosinone (1877-1880), spese la sua vita per l’ideale dell’unificazione e dell’indipendenza italiana. Fu amministratore probo, saggio e lungimirante. Si distinse per la saldezza e l’integrità del carattere, per la nobile gentilezza dell’animo e per l’intemerata onestà. Nella sua generosa azione amministrativa, animata da sincere convinzioni democratiche, Achille Giorgi si volse verso tutti i campi di interesse sociale, rinnovando e ammodernando le istituzioni municipali e prodigandosi per il progresso e l’emancipazione della società civile.

Claudia De Angelis (XVII sec), mistica anagnina, figlia di un ferentinate si distinse per le sue virtù e per il progetto di emancipazione della donna attraverso l’istituzione di un Conservatorio per l’educazione delle giovinette.

Teresa Spinelli (XVIII-XIX sec., serva di Dio), romana, visse a Ferentino dal 1807 al 1816 nel Palazzo della Famiglia dei Conti Stampa (oggi Palazzo Comunale), di cui fu governante ed amministratrice. In Ferentino sull’esempio delle monachelle del Conservatorio di S. Chiara della Carità maturò la sua vocazione religiosa. Entrata nell’Ordine Agostiniano, fondò a Frosinone la Congregazione delle Suore Agostiniane serve di Gesù e Maria e si prodigò per l’emancipazione femminile attraverso la fondazione di una scuola, che non faceva distinzioni tra le classi sociali.

Maria De Matthias (XIX sec., santa), di Vallecorsa, figlia della ferentinate Ottavia De Angelis (sorella di don fedele De Angelis), maturò la sua vocazione religiosa al seguito di S. Gaspare del Bufalo. Ebbe una forte esperienza di fede e grazie al vescovo di Ferentino, in quell’epoca amministratore apostolico della Diocesi di Anagni, fu autorizzata ad aprire una scuola di catechismo ad Acuto. L’esperienza acutina e la conoscenza dell’itinerario didattico, attuato in Ferentino dalla monachelle del Conservatorio di S. Chiara della Carità, la spinsero a fondare una scuola femminile, nella quale erano ammesse fanciulle senza riguardo alla loro appartenenza sociale.

Fortunata Viti (XIX-XX sec., beata), di Veroli, figlia della ferentinate Anna Bono, entrò giovanissima nel monastero verolano di S. Maria de’ Franconi, dove visse tutta la sua lunghissima vita in atteggiamento di umiltà e di preghiera.

Monsignor Tommaso Leonetti, vescovo di Ferentino dal 1942 al 1962, cittadino onorario per aver salvato la Città dagli orrori della Seconda Guerra Mondiale.

Padre Guerino Marsecane e fratelli (sec. XX), benefattori di Ferentino, donarono i loro possedimenti in contrada S. Maria degli Angeli perché si costruisse una casa di accoglienza per disabili e reietti: il Piccolo Rifugio

Desiderio De Angelis, nato a Ferentino nel 1743 da una famiglia contadina proprietaria di piccoli appezzamenti di terreno, fu un artista. Della sua formazione artistica non si conosce nulla, essendo stato poco studiato il Settecento ferentinate, che ha comunque fatto registrare nella città ernica la presenza di Francesco Queirolo cui si deve la realizzazione nel 1750 del monumento sepolcrale per il Vescovo Fabrizio Borgia. Desiderio De Angelis – pur se non si ha specifico riferimento nelle fonti storiche – frequentò a Napoli i corsi della Reale Accademia del Disegno voluta da Carlo di Borbone nel 1752. Partecipò ai lavori della decorazione della Reggia del Vanvitelli a Caserta ma le fonti consentono di riferire a Desiderio solamente i rilievi a stucco che ornano un Gabinetto dell’avancorpo orientale della facciata, eseguiti probabilmente nel 1787. Nel 1790 fu nominato docente nella Reale Accademia di pittura di Napoli e dipinse la tela con il Martirio di Sant’Ippolito firmata e datata 1790 destinata all’altare maggiore della chiesa parrocchiale di Sant’Ippolito a Ferentino. Il dipinto gli fu sicuramente commissionato dal parroco della suddetta chiesa nonché suo cugino – Don Fedele De Angelis – e raffigura al centro il Santo per terra trascinato da due cavalli istigati da un palafreniere: il martire romano è qui raffigurato con gli attributi di un soldato, ossia con l’elmo, la clamide ed il gladio in primo piano. Il dipinto ha uno sviluppo ascensionale, verticale, ed il soggetto è poco o nulla rappresentato nell’iconografia settecentesca. Dopo aver eseguito diverse opere per la Reale Accademia di Napoli, eseguì nel 1801 la grande pala per l’altare dell’Abbazia di Santa Maria Maggiore, firmata e datata, ora posta nella parete di controfacciata della chiesa stessa. La letteratura locale ferentinate assegna al De Angelis un cospicuo numero di altre opere, in particolare le tele anonime della chiesa di Sant’Agata, in parte distrutte dai bombardamenti dell’ultima guerra e riconoscibili solo in foto. Inoltre, è considerato l’autore della tela raffigurante San Girolamo e San Giovanni Battista situata nella chiesa di San Valentino. Non si hanno più sue notizie dal 1811, probabile anno della sua morte.

Don Fedele De Angelis (XVIII sec.), parroco di S. Ippolito, fucilato a Roma in Piazza del Popolo durante la Rivoluzione giacobina del 1799 per aver difeso la Chiesa Romana dai suoi avversari atei e materialisti. Maestro di retorica nella scuola umanistica ferentinate, parroco della chiesa di Sant’Ippolito, cugino del pittore ferentinate Desiderio De Angelis. Prese parte agli eventi della Repubblica Romana del 1799, difendendo con eroismo, fino all’estremo sacrificio, la Religione Cristiana e la Chiesa, alle quali aveva dedicato tutta la sua vita. Condannato a morte, dopo un processo sommario, fu fucilato in Piazza del Popolo a Roma dalle truppe rivoluzionarie francesi.

Marianna Candidi Dionigi (1756-1826), nobildonna romana, figlia di Giuseppe Candidi e Maddalena Scilla, nacque nel 1756 e visse nel pieno dei grandi cambiamenti politici e sociali in Europa tra i quali la Rivoluzione Francese e l’Impero Napoleonico. Molteplici sono le attività culturali alle quali dedicò gran parte della sua esistenza: musica (arpa e piano), quindi fuori della comune usanza del tempo, lingua francese, inglese e qualche erudimento di lingua latina. Si dedicò in seguito agli studi archeologici ed alla pittura sotto la direzione del rinomato paesista Carlo Labruzzi, poi divenuto Direttore dell’Accademia di Perugia. Eseguì a penna alcune opere di Poussin e Salvator Rosa e realizzò numerosi disegni a tempera. Pittrice emerita, i suoi quadri si trovano presso il Palazzo della Cancelleria in Roma, presso l’Accademia di San Luca e la Reggia di Caserta, in Inghilterra e presso le famiglie dei suoi discendenti a Roma e Lanuvio. Scrisse anche un’opera didattica Sulla pittura dei paesi corredata da un trattato sull’architettura e di prospettiva e Viaggi in alcune città del Lazio che diconsi fondate dal Re Saturno, nel quale descrive minuziosamente l’origine delle città laziali ed ogni monumento della città di Ferentino, come di altri paesi della Ciociaria, donandoci visioni di paesaggi non più esistenti realizzate durante i suoi viaggi di studio, ricerca e conoscenza. Ebbe rapporti culturali con Vincenzo Monti, Shelley, il grande scultore Antonio Canova, Giacomo Leopardi e con l’archeologo d’Angincourt. Sposò giovanissima il giureconsulto Domenico Dionigi, conte del Sacro Palazzo Lateranense, nobile ferrarese, dal quale ebbe sette figli. Lo spirito e la cultura che l’adornavano, le attirarono sempre onorevolissime relazioni e si vide attorniata fino alla vecchiaia da dotti ed aulici artisti di ogni genere. Conosciutissima e stimatissima da tutti, recitò poesie di ottima composizione e in stile forbitissimo nelle adunanze arcadiche. Morì a Lanuvio nel 1826.

Alfonso Giorgi (1824-1889), eclettico cultore delle patrie memorie, gonfaloniere di Ferentino nell’ultimo periodo del potere temporale dei Papi, promotore della cultura a tutela del patrimonio storico-artistico di Ferentino, Alfonso Giorgi dedicò la sua vita agli studi e alle ricerche erudite. Coltivò, a beneficio della sua città natale, l’amicizia di illustri personaggi, tra i quali Teodoro Mommsen, ospitando nella sua casa dotti e scienziati, mettendo a loro disposizione le sue vaste conoscenze e la sua ricca biblioteca. Non disdegnò l’attività amministrativa, che svolse con impegno e competenza a vantaggio di tutti i cittadini e fu Cameriere Segreto di Spada e Cappa di Pio IX, per quattro volte Gonfaloniere di Ferentino nonchè Sindaco dopo l’Unità d’Italia. I Giorgi furono una delle famiglie più in vista nella Ferentino degli ultimi tre secoli, tanto che ottennero anche l’iscrizione al ceto nobile della città. Le prime attestazioni della famiglia risalgono al 1514 quando i Giorgi, proprietari di fornace, risultano fornitori della Venerabile Fabbrica di San Pietro. Si è voluto intitolare la Biblioteca Comunale di Ferentino ad Alfonso Giorgi in quanto il suo ricco archivio personale rispecchia gli interessi del classico erudito. Esso contiene manoscritti antichi di storia locale, schede e collezioni di epigrafi latine, appunti di archeologia e ricchissimo carteggio epistolare di autorevoli personaggi e studiosi ottocenteschi, relativo alle sue ricerche e studi. Alfonso Giorgi, valido epigrafista, fu socio dell’Istituto di Corrispondenza Archeologico Germanico, sul cui Bullettino furono pubblicati testi epigrafici inediti. Lo studio delle antiche lapidi della provincia di Campagna e Marittima, da lui intrapreso, lo portò a collaborare, tra gli altri, con T. Mommsen, B. Borghesi, G.B. De Rossi e W. Henzen. La “Biblioteca Privata Alfonso Giorgi”, così come si presenta attualmente, è stata allestita nel 1980 ad opera di Pio Roffi Isabelli, ma solo nel 1989 è stata regolarmente censita nell’Annuario delle Biblioteche Italiane a cura del Ministero per i Beni Culturali ed Ambientali. Essa consta di circa 1400 volumi ed opuscoli che trattano di Diritto e Economia, Epigrafia Latina, Storia Ecclesiastica, Scienze Naturali, Filosofia e Lettere Classiche per un arco cronologico esteso dal 1500 al 1900.

Alessandro Angelini fu medico, mazziniano, difensore della Repubblica Romana e deputato della Costituente Romana. Nel febbraio 1849, l’Assemblea Costituente Romana dichiarava decaduto il potere temporale del Papa e l’instaurazione della Repubblica Romana. Alla Costituente, che avrebbe presentato il progetto di Costituzione repubblicana il 17 aprile 1849, parteciparono i ciociari Alessandro Angelini, medico di Ferentino, Domenico Diamanti, Luigi Marcocci e Filippo Turiziani, avvocati di Frosinone, Luigi Salvatori, giornalista di Frosinone, Sisto Vinciguerra, avvocato di Alatri, Ambrogio Leggeri di Anagni.

Luigi Morosini, nato a Ferentino nel 1866, frequentò la scuola tecnica della città; interessato alle arti figurative, si iscrisse all’Accademia delle Belle Arti a Roma, seguì il corso speciale per la conoscenza e lo studio degli stili architettonici greco, romano e rinascimentale; conseguì il diploma di professore di disegno architettonico e si iscrisse alla Scuola di applicazione per gli ingegneri di Roma e nel 1893 si laureò in ingegneria. Il Morosini svolse attività secondaria nei lavori di costruzione del Vittoriano insieme al cognato Giuseppe Sacconi e dopo la morte di quest’ultimo – avvenuta nel 1905 – ottenne di entrare come ingegnere civile al Ministero dei Lavori Pubblici. In quello stesso anno si dedicò ai lavori di restauro delle bifore romaniche di Palazzo Consolare emerse sulla facciata del Palazzo durante i lavori di demolizione della torre; lavori che terminò nel 1909. Rimasto poco tempo al Ministero dei Lavori Pubblici, fu richiesto dalla Direzione Generale delle Belle Arti che lo destinò in missione alla Soprintendenza dei Monumenti del Lazio, dove svolse la sua attività per circa dieci anni. Sotto la guida dell’archeologo Rodolfo Lanciani, Morosini ebbe l’incarico di dirigere i lavori per completare la sistemazione della zona monumentale di Roma, in particolare per l’isolamento delle Terme di Caracalla e del Colosseo. Nel ripristino e nella valorizzazione dei resti archeologici romani cercò di esaltarne la solennità monumentale, senza alcune volte considerare adeguatamente la ricchezza delle stratificazioni storiche, spesso indispensabili per una completa conoscenza dei monumenti. Nel 1906 il Consiglio Comunale di Ferentino affidò al Morosini il progetto per la costruzione dell’edificio scolastico per uso delle elementari maschili che si decise dovesse sorgere nel terreno adiacente la chiesa semidistrutta di San Lorenzo; la stessa costruzione avrebbe consentito di riutilizzare i muri ancora in piedi della chiesa medievale di San Lorenzo. Ma il progetto, approvato nel 1910, non fu mai realizzato per difficoltà economiche connesse all’esproprio del terreno. Dopo essere stato consigliere comunale a Ferentino dal 1907 al 1912, venne candidato per il mandamento della città per il rinnovo del Consiglio Provinciale di Roma e riuscì eletto a grande maggioranza. In questi anni ebbe l’incarico di Presidente della Giunta Generale del Consiglio ed ottenne la correzione del tronco stradale che collega Borgo Sant’Agata al Vascello, favorendo la sistemazione degli odierni Viali Alfonso Bartoli e Guglielmo Marconi. Ebbe poi l’incarico di progettare il nuovo altare per la chiesa di Santa Maria Maggiore e nel 1911 ne realizzò uno imponente in marmo con decorazioni musive di gusto cosmatesco recante gli stemmi del Papa Pio X (1903-1914)e del Vescovo dell’epoca – Mons. Domenico Bianconi (1897-1922). Tuttavia, nel 1979 la Soprintendenza ai Monumenti del Lazio ha fatto rimuovere l’altare in quanto inadeguato al linguaggio cistercense dell’edificio e l’attuale altare a mensa risale al 1984 realizzato con materiale di spoglio dell’opera di Morosini. Dietro incarico dell’Amministrazione Comunale, eseguì lavori di manutenzione e totale rinnovamento della pavimentazione in quadrucci di basalto delle Vie Consolari e Cavour. Nel 1915 – dopo il disastroso terremoto – ricevette l’incarico di progettare tutti i lavori occorrenti a riparare e consolidare gli edifici pubblici di proprietà comunale danneggiati dal sisma. Nel 1922 ebbe l’incarico dal Comune l’incarico di progettare il Monumento ai Caduti della I Guerra Mondiale, da costruire al centro della Piazza Umberto I, la piazza principale della città. Morì nel 1954 realizzando anche la tomba di famiglia, ricalcando il progetto sacconiano della cappella espiatoria di Monza in memoria di Umberto I. La vita e le realizzazioni di Morosini testimoniano il suo interesse per l’antichità classica e le sue opere dimostrano un costante richiamo alla tradizione umanistica nel rispetto per le proporzioni armoniche e per le forme eleganti ed ornate in modo sempre sobrio. Pur essendo laureato in ingegneria, firmò la maggior parte delle sue opere con il titolo di architetto, anteponendo la sua naturale disposizione artistica a quella più propriamente tecnica.

Alfonso Bartoli, nato nel 1874 a Foligno, senatore nel 1939 ed archeologo, socio della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, nel corso di una ripetuta e lunga permanenza a Ferentino, effettuò sulle antichità ferentinati notevoli studi in ambito archeologico e la nostra città si onorò di averlo quale cittadino onorario. A lui si deve il merito di uno studio approfondito relativo al Teatro, effettuato nel 1923, e in una lettera al sindaco di Ferentino, rievoca l’ inatteso risultato di prolungate indagini archeologiche condotte sul sito.

Padre Sante Propoggia(sec. XIX-XX), bruciato vivo in Cina nel 1930 per la sua fede cristiana.

Padre Michele Celani, certosino, croce al valor militare, alla memoria, morto il 27 novembre 1954. Quinto di sette figli, Domenico Celani – Memmo per familiari e amici– vide la luce nel Maggio1903 a Ferentino, in Via dello Jerone. I genitori, Pietro Celani e Maria Mattia Ceccarelli, piccoli proprietari terrieri, avviarono presto i figli al lavoro dei campi. Anche Memmo, sin da piccolo, faceva la sua parte. Dopo la scuola collaborava con i fratelli più grandi in piccole mansioni. Amava stare con i coetanei con cui giocava “al cerchio“, “a scuccetta”,ma si divertiva un mondo a giocare con le lucertole e a difendere e curare gli uccellini caduti dal nido o infortunati. Silenzioso e meditabondo, lo sguardo di questo bambino sembrava varcare i confini del reale. Incappò un giorno in un frate questuante che veniva da Trisulti e intrecciò con lui un discorso che lo affascinò; aveva nove anni. Aveva appena compiuti gli studi elementari quando un giorno Domenico sparì dalla circolazione; aveva undici anni. A cena mancava all’appello. Le inutili ricerche e le ansie della famiglia si placarono al pensiero che forse era andato a Pietralara1 a fare la guardia, come di solito, all’uva matura; quando, però, al mattino il padre Pietro non lo trovò nella capanna, l’angoscia fu grande. Si passò la voce a tutta la parentela. Nessuna notizia, nessun segno di vita. Dopo qualche giorno d’inutili ricerche, la madre, Maria Mattia, ricordò la lunga passeggiata fatta dal figlio col frate certosino e scattò la scintilla. Sellato l’asinello, Pietro Celani partì per Trisulti. Lo trovò felice tra i frati che lavoravano e pregavano. Pagò cara la scappatella il piccolo eremita, con due meritati ceffoni e in sella tornò a casa col padre. Trisulti fu dimenticata da tutti. Ma non la dimenticò Domenico che, finiti gli studi al collegio “Martino Filetico“, dove frequentò l’Istituto Tecnico, sorridendo e sicuro di sé, salutò i suoi cari e raggiante raggiunse la certosa. Una vocazione decisa, senza crisi e traumi, è alla base della sua “limpida fede” che gli dà certezza e padronanza di sé. Cappellano militare, lascia la certosa, ama, serve e onora la patria che ama ancor di più quando fatto il servizio militare torna nel suo eremo dove le ore di lavoro sono intrecciate di lodi e preghiere per le necessità del mondo. L’Italia, la nostra patria che genitori e docenti ci hanno insegnato ad amare ha già attraversato anni di sangue e di lotte, ma la seconda guerra mondiale si presenta come una bufera che non dà scampo a nessuno. Domenico, ora Don Michele, ama profondamente la sua patria, la desidera libera, finalmente libera. Con quale gioia aprì le porte della Certosa a famiglie di Frusinati, Ferentinati, Alatrensi e di altri paesi della Ciociaria che cercavano rifugio! Per fortuna il Padre Priore gli diede carta bianca perché non si sentiva di gestire questa impresa volendosi occupare esclusivamente delle cose dello spirito.
Don Michele, Procuratore, unico certosino che aveva il permesso di lasciare la clausura per la conduzione della comunità che richiedeva numerosi contatti con il mondo esterno, fu l’anima di questo evento straordinario che vide la Certosa diventare un eccezionale comune ciociaro con tutti i problemi annessi e connessi alle necessità degli abitanti. La sua umiltà e semplicità, il suo tratto di uomo rispettoso della dignità di ogni fratello, la sua fine intuizione e comprensione di ogni circostanza gli avevano regalato una cerchia di amici che gli volevano veramente bene. N e aveva a Frosinone, Ferentino, Fiuggi, Ripi, Alatri Sora e altrove. I nomi più ricorrenti? Spaziani, Turriziani, Marini, Colasanti, Diamanti, Moraldi, Castaldi, Garzilli, Borelli, Bevivino, Mariani, Colafranceschi, Baroni, Culla, Igliozzi, Pietrobono, Silvestri, P. Bucci e lo stesso Preside Minnocci che gli concedeva volentieri il permesso di venirmi a salutare, passando per Alatri, mentre io ero in classe. Poi si intrattenevano a parlare con piacere. L’amicizia, quella vera, è un dono che dà gioia ma anche forza, spirito di sacrificio e coraggio quando occorre difenderla. Come non aiutare gli amici che chiedono aiuto in circostanze così drammatiche ?
Di fronte agli amici dell’Italia, diventati nemici dopo l’8 Settembre, Don Michele non batté ciglio e, incoraggiato da mio padre, con decisività e cautela insieme, col sorriso sulle labbra, ma con pesate e misurate parole, diede vita, per nove mesi, a un’opera di assistenza che sa del prodigioso.
La certosa si popola sempre più di famiglie in cerca di asilo, arrivano con asini e muli carichi di fagotti di indumenti e coperte perché l’inverno è imminente. Non mancano persone anziane e malati, bambini in fasce e mamme in attesa. Don Michele dà ordini precisi. Convoca i capifamiglia per decidere insieme il da farsi, mentre persuade i suoi confratelli a lasciare libere le celle superiori e ad accontentarsi di poco spazio nei sotterranei dell’edificio. Prima furono occupate le celle e man mano tutti i corridoi, compresi quelli del chiostro, le soffitte e magazzini, ogni angolo libero: tanti erano gli sfollati in cerca di rifugio. Il piccolo “Senatus“, dietro le direttive di Don Michele, provvide a tutto: sistemazione negli alloggi, igiene e sanità, oscuramento, difesa, assistenza, vettovagliamento. Io assistevo sorpresa all’azione libera e democratica di uomini che sapevano decidere da soli e insieme, senza imposizioni e divieti venuti dall’alto. Fu allora che la mia personalità di giovane diciottenne asservita al regime cominciò a maturare e a comprendere cosa significhi libertà, a conoscerne il vero sapore che prima non avevo mai gustato. Vidi mio padre con altri occhi.
Manifesti e annunci incollati sulle mura della certosa informavano tutti delle decisioni prese e ognuno si regolava di conseguenza. Si pensò, soprattutto, ai più bisognosi con razioni di viveri giornaliere messe a disposizione dalle famiglie meglio provviste e dai frati. Furono installate tre serie di latrine, si diedero ordini precisi circa l’oscuramento notturno, l’apertura e chiusura del portone, furono impartite altre indicazioni ma il capitolo più significativo fu la difesa.La certosa pullulava di giovani e uomini che i Tedeschi potevano rastrellare in ogni momento per mandarli al fronte allora fermo a Cassino. Solo la famiglia di Consalvo Silvestri2 ne contava una decina con Tullio Pietrobono e Walter Pedullà3 che si erano aggregati al suo nucleo. Fu giocoforza per Don Michele organizzare un rifugio sicuro.
Sul lato destro del chiostro c’era una cella fatiscente e quindi chiusa; sotto di questa era stato ricavato un mezzanino ampio ma senza luce ed aria, con un ingresso microscopico (doveva essere stato utilizzato come magazzino). Coperto il pavimento sconnesso della cella disabitata con legni e paglia per permettere all’aria di penetrare nel mezzanino, tutti gli uomini, da qualunque parte della certosa si trovassero, in caso di allarme, si dirigevano immediatamente verso questa cella per nascondersi nel mezzanino, col divieto di parlare, tossire e starnutire. L’allarme veniva dato dal suono a martello della campana della chiesa grande che, alcuni addetti, a turno, durante il giorno, avevano l’incarico di suonare non appena giungeva la staffetta che stava a guardia della valle che divideva Collepardo da Trisulti. Il ruolo di sentinelle era affidato anche a noi, allora giovani donne che, dall’alto delle Cappellette, osservavamo la via mulattiera con tutti i suoi tornanti che portava da Collepardo alla Certosa. Appena avvistati i Tedeschi in cammino nella direzione di Trisulti, lasciavamo il posto di guardia, percorrendo di corsa circa un chilometro, per raggiungere la Certosa e dare l’allarme. Le campane a martello creavano un generale spavento in tutti gli ospiti: si udivano parole concitate, si vedevano uomini correre e volti di mamme segnati dalla paura. Il Procuratore si faceva avanti sul portone della certosa e attendeva l’arrivo del drappello teutonico. Quante volte ha dissuaso il comandante dal fare l’ispezione! Solo con buone parole e qualche vecchia bottiglia di liquore, produzione rinomata dei frati farmacisti. Ma non sempre ci riusciva. H o personalmente assistito, una volta, all’ispezione cella per cella per cercare uomini da rastrellare e mandare al fronte, senza trovarne uno.
La rabbia dell’Ufficiale cresceva e arrivò al colmo quando davanti alla cella “famosa” diede ordine di aprire la porta a Don Michele che non voleva, adducendo motivi di pericolosità, non essendo la cella agibile, perché fatiscente. Don Michele, più pallido che mai, fu costretto ad aprire avvertendo però di non superare la soglia perché il pavimento poteva cedere. Io ed altri sfollati seguivamo l’operazione, tremanti, aspettando il peggio quando, per le preghiere forse di tanti familiari, il Comandante cambiò idea, facendo segno di proseguire. Rivedo ancora la m ano di m io zio che, nervosa m a decisa, richiude la porta, con un sospiro di sollievo. Che sarebbe successo se una voce, uno starnuto, un piccolo rumore provenienti dal mezzanino fossero arrivati all’orecchio di quel capo deciso a tutto? Mio zio mise a repentaglio veramente la sua vita e quella dei frati per salvare tanti giovani e uomini che per ore stettero col fiato sospeso, in attesa della partenza della pattuglia nemica. Le visite dei tedeschi erano imprevedibili e bisognava rispettare alla lettera il regolamento della difesa. Spesso venivano a caccia di viveri. Un tardo pomeriggio la campana a martello ci sorprese mentre si pregava nella cappelletta fuori del convento. In un batter d’occhio ogni uomo sparì dalla circolazione. -Ci siamo-ci dicemmo. Quella volta l’ispezione avvenne solo nella cucina dove i Tedeschi si diressero per cercare cibo e bevande . Ma la penuria di vettovaglie era ormai scontata. Siamo nella primavera avanzata del ’44. La lunga sosta del fronte a Cassino aveva esaurito ogni riserva. Non trovando gran che, questa volta i balordi se la presero con il Priore che, con secche parole, cercava di liquidarli. Ad ogni battuta del Priore scattavano pugni e schiaffi. Mio zio Don Michele, per difendere il Priore anziano e malandato, si poneva in mezzo ricevendo i colpi su di sé. Gli urli, le batoste, le discussioni durarono a lungo. Mio padre aveva assistito a tutta la scena nascosto in un camerino attiguo alla cucina, origliando e guardando di tanto in tanto di soppiatto, ma nell’assoluta impossibilità d’intervenire per il pericolo di essere reclutato e inviato al fronte. Quando uscirono da lì avevano le bisacce molto magre, m a qualche parola serena del Procuratore e qualche bottiglia di buon liquore li aveva fatti calmare e rinunciare all’impresa. Don Michele, ammaccato nel corpo, aveva ancora una volta salvato la situazione. A prima vista potrebbe sembrare che l’assistenza organizzata da Don Michele in favore degli sfollati e rifugiati nel convento fosse dettata da un dovere soltanto morale e sociale che ogni uomo, secondo le possibilità, deve sentire di compiere.
Non è così. Don Michele, dopo Dio, amava la patria che vedeva martoriata e sbandata nei suoi figli specie più giovani che, martellati per anni da slogans e affermazioni assolutistiche, erano frastornati come naufraghi usciti dalla tempesta. La dittatura non forma, non educa al vero, al giusto; sollecita la superbia e finisce nel sangue. Egli vedeva in quei giovani, tante volte sottratti all’ira nemica, i germogli della civiltà dell’amore, della civiltà della libertà, della vita democratica, di un mondo di giustizia e di pace dove vigono le leggi del rispetto della dignità di ogni uomo.
Stava nascendo l’alba di un mondo nuovo e ne faceva testimonianza in certosa l’arrivo di strani ciclostilati che leggeva insieme a mio padre e che li riempivano di gioia. Mani amiche e discrete li recavano periodicamente e informavano di movimenti di pensiero, serpeggianti dal nord al sud dello stivale, inneggianti alla vita libera e democratica. Bisognava collaborare con la resistenza in ogni maniera se si voleva accelerare la nascita del nuovo giorno. Notizie vaghe, rubate a Radio Londra, davano il punto della situazione militare e politica ma non si può rimanere inerti nell’attesa. A sinistra dell’ingresso principale della certosa, una sala, guardata a vista tutti i giorni da uomini fidati e silenziosi, per lo più medici, era riservata a soldati, partigiani, feriti, sbandati, affamati, che attraverso le montagne fuggivano dal fronte. Americani, Inglesi, Canadesi e partigiani sono stati ospiti di questo originale ospedale di guerra senza che nessuno degli ospiti della certosa se ne accorgesse (mio padre in famiglia ne faceva solo qualche timido cenno). Analoga ospitalità e assistenza, anche se in tutt’altra sede e nel più assoluto riserbo, venivano offerte a Tedeschi disarmati, feriti, disertori e fuggiaschi. La regola per Don Michele era: agire in silenzio. Don Michele fu barbaramente ucciso il 27 Novembre 1945 nella sua cella da delinquenti comuni in cerca di danaro.

Le vittime innocenti dell’eccidio alle Fosse Ardeatine (Roma, 24 marzo 1944), Giovanni Ballina e Ambrogio Pettorini.

Alberto Lolli Ghetti nacque a Ferentino il 4 maggio 1915 da Ambrogio e Lisa Sterbini; il padre era direttore delle Poste, la madre apparteneva ad una famiglia di proprietari terrieri. “Esile, non alto, riccioluto e biondo, di lineamenti delicati, ma sbarazzini, vivace, ma buono”, Alberto frequentò le scuola elementare, avendo come maestro Cesare Pinelli; si iscrisse al Ginnasio nel Collegio “Martino Filetico” di Ferentino e durante il suo corso di studi cominciò a maturare il progetto di “fare carriera nell’esercito”, dove già molti suoi familiari si facevano onore. Il padre Ambrogio, detto familiarmente Gino, di fieri sentimenti repubblicani e socialisti, educò Alberto ai doveri verso la Patria, ma anche alla difesa dei diritti del cittadino calpestati dal regime fascista, che in quel periodo governava l’Italia. Il padre gli fece leggere, già a quindici anni, I Miserabili di Victor Hugo, libro da lui definito “la Bibbia dell’Umanità”; inoltre lo educò alla pratica degli sport, specialmente l’equitazione e lo sci. Conseguita la licenza liceale presso il liceo classico di Frosinone, Alberto si iscrisse nel 1935 alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Padova; ma il suo desiderio rimaneva quello di diventare ufficiale del Regio Esercito ed entrare nell’arma del genio militare. Alberto “come militare voleva rendersi utile, fattivamente, concretamente e con la propria professionalità concorrere alla costruzione di strade, di ponti, di fortificazioni, alle comunicazioni, ai trasporti specie nei momenti di calamità naturali”. Nel 1936, dopo aver superato il concorso, entrò con il 118° corso nella “Regia Accademia di Artiglieria e del Genio” di Torino. Il 4 novembre 1938, prestato solenne giuramento di fedeltà al Re, Alberto divenne ufficiale effettivo del Regio Esercito ed entrava nella Scuola d’Applicazione, una scuola che preparava professionalmente e militarmente i giovani sottotenenti che la frequentavano. Nel 1940, all’entrata dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, Alberto era in procinto di sostenere gli ultimi esami; come tutti i giovani suoi coetanei esultò alla notizia e non desiderava altro che partire per dimostrare il suo valore e la sua preparazione. L’ordine tanto atteso arrivò il 13 dicembre 1940, mentre Alberto si trovava a Napoli per un periodo di addestramento: fu inviato sul fronte africano. Dopo un breve soggiorno a Tripoli, dove ebbe l’amaro presentimento che la guerra sarebbe stata lunga, Alberto si stabilì, verso la fine di dicembre, con la sua compagnia alle soglie del deserto. Tra i soldati, che con lui condividevano la triste esperienza della guerra e del deserto, ebbe la felice sorpresa di trovarne ventisei provenienti da Ferentino. L’operazione militare tanto attesa arrivò il 21 novembre 1941: un reparto della 1° Compagnia Genio Artieri d’Arresto, al comando di Alberto, fu inviato nelle prime ore del mattino, forse le quattro, oltre le linee verso Tobruk. Il reparto doveva “sminare” la zona a loro assegnata; il lavoro procedeva velocemente, quando furono attaccati di sorpresa dagli avversari. Alberto organizzò subito la difesa e, dopo quattro ore di accerchiamento, riuscì ad aprirsi un varco, liberandosi dalla morsa nemica. A questo punto Alberto si accorse che la batteria tedesca rischiava di capitolare; allora tornò indietro per prestare aiuto. Riuscì nell’intento e aiutò i soldati a mettersi in salvo, ma, mentre l’operazione “rientro” dei suoi uomini stava volgendo al termine, un proiettile di carro armato lo colpì, troncandogli quasi del tutto la gamba sinistra. “La tremenda ferita non gli impedì di combattere sinché non vide l’ultimo geniere raggiungere le linee amiche; poi … cadde stremato sul duro terreno desertico, intriso di sangue e di morte”. Trasportato da un mezzo tedesco al 96° ospedale da campo, subì l’amputazione dell’arto: “rifiutò l’anestesia, per lasciare quel poco di cloroformio che rimaneva ad altri”. Tra il 24 e il 25 novembre 1941 fu trasferito all’ospedale della divisione e successivamente all’ospedale da campo n. 893 di Derna. La sua agonia terminò il 2 dicembre 1941.
Fu insignito della Medaglia d’oro al Valor Militare: “dotato di alto spirito di sacrificio, al comando di plotone artieri-minatori, si distingue per ardimento e capacità nella esecuzione, sotto continuo fuoco avversario, di lavori di approccio per l’attacco di munitissima piazzaforte avversaria. Attaccato di sorpresa da forze corazzate, mentre è intento al lavoro oltre le linee, raccoglie i propri uomini e contrattacca a colpi di bombe a mano. Successivamente, accortosi che una batteria di artiglieria sta per cadere in mano all’avversario, con felice iniziativa e generoso cameratismo, accorre col suo plotone a compiere il lavoro di disancoraggio, egli stesso impugna un attrezzo, e, geniere fra i genieri, animando il febbrile lavoro salva la batteria. Prodiga quindi ogni sua energia per disimpegnare il plotone da critica situazione, e mentre sta per raggiungere l’intento, viene colpito da proiettile di carro armato, che gli tronca una gamba. Incurante delle sue gravi condizioni, rincuora i genieri feriti e dà disposizioni per il ripiegamento. All’ospedale da campo subisce con stoica sopportazione l’amputazione della gamba, e subito dopo la grave operazione si preoccupa di scrivere al capitano comandante la compagnia, per fornirgli notizie dei genieri feriti e chiedere quelle della compagnia. Morente, pronunzia superbe parole di soddisfazione per il dovere adempiuto e sublimi espressioni di devozione alla Patria. Fulgido esempio di salde virtù militari. Africa Settentrionale, novembre 1941″.

Ricordiamo infine Padre Guerino Calabrese, Custode di Terra Santa, Monsignor Guerino Domenico Picchi, vicario apostolico e vescovo dei cristiani di Aleppo in Siria, Padre Paolo Mastrangeli, parroco di Betlemme, Padre Giuseppe Leombruni, frate francescano missionario in Terra Santa, Ugo Bellusci, medico eletto all’assemblea costituente della Repubblica Italiana.

 

 

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