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Manifesto di Ventotene, tradotto nelle 27 lingue dell’Unione europea

Manifesto per un’Europa libera ed unita, meglio noto come Manifesto di Ventotene, tradotto nelle 27 lingue dell’Unione europea.
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Un Manifesto per i Federalisti Europei

Il progetto di manifesto per un’Europa libera e unita, scritto nel 1941 da un giovane dirigente comunista, Altiero Spinelli, divenuto in carcere federalista europeo, e da uno studioso liberale acquisito al socialismo di concezione inglese, nella persona di Ernesto Rossi, costituisce un punto di riferimento sempre più importante per la cultura politica italiana ed europea. La sua preveggenza risulta evidente proprio ai nostri giorni, in cui, sia sotto il profilo politico che socio-economico, si avverte la mancanza di un’Europa dotata di istituzioni a carattere federale.
A ben considerare, sono pochi i documenti prodotti durante la Resistenza antifascista ad aver propugnato in maniera così determinata ed efficace gli Stati Uniti d’Europa e quella costituzione democratica tornata recentemente di attualità nell’UE prima di soccombere all’alea dei referendum di ratifica. Si deve pertanto essere riconoscenti al Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, se egli, che è stato prosecutore dell’opera di Spinelli nella commissione Affari costituzionali del Parlamento europeo, non perde occasione per sottolineare il significato semplicemente fondante, per la Repubblica italiana e per l’intero federalismo europeo, del Manifesto ventotenese.
Nelle limpide pagine vergate da Rossi, allievo di Luigi Einaudi, e da “Ulisse” (pseudonimo di Spinelli, oggi annoverato fra i “padri fondatori” dell’Unione) viene avanzata una nettissima e innovativa discriminante politica: la vera linea di divisione fra progressisti e reazionari passa ormai fra chi si pone come obiettivo prioritario la federazione europea e chi intende invece lavorare ancora per la restaurazione degli stati nazionali dotati di sovranità assoluta. Non solo, giacché il Manifesto propone per la prima volta la creazione di una forza politica, a carattere rivoluzionario, che si prefigga il traguardo immediato della democrazia sovranazionale europea.
Non meno importante è sottolineare ancora come lo stato federale europeo venga giudicato indispensabile dai due autori non soltanto per conferire una pace stabile al continente dopo tanti anni di guerre e di distruzioni, e non certo per fare dell’Europa federata una nuova potenza sulla scena mondiale, bensì per una ragione in primo luogo umanistica e, diremmo, spirituale: quella cioè di offrire agli europei – e tramite loro a tutto il globo – un più alto grado di civiltà, fondato sulla libertà dell’individuo, sulla piena espressione delle singole potenzialità umane e sul rispetto del diritto legittimato dalla democrazia. Per il perseguimento di tali scopi risultava dunque necessario procedere ad azioni coraggiose e lungimiranti, quali unire i singoli popoli sotto comuni istituzioni rappresentative, aprire le frontiere alla circolazione dei cittadini e dei beni, creare l’unità economica e monetaria, dotarsi di una capacità di difesa e di una politica estera unica.
Che sono poi gli stessi obiettivi, sia pure perseguiti a passi felpati, dell’Unione Europea dei nostri giorni.
Per parte loro, Rossi e Spinelli, vale la pena di ripeterlo, consideravano la federazione europea un’impresa rivoluzionaria. Come osserva Sergio Pistone, le proposte politiche e organizzative avanzate dall’ex dirigente comunista e dal suo compagno di prigionia, nel perseguire l’abbattimento dell’ordine europeo nazi-fascista allora all’apogeo, rivelavano al tempo stesso il desiderio di offrire una valida alternativa al Manifesto dei comunisti, propagandato da Marx e Engels nel 1848 e divenuto la bandiera della Seconda, non meno che della Terza Internazionale, guidata dall’Unione Sovietica staliniana.
Un’alternativa che rivelava peraltro come il nesso fra teoria e strategia proposto dai ventotenesi fosse frutto di una rielaborazione degli insegnamenti ricevuti dal marxismo, prima del passaggio al federalismo.
Scrive appunto lo storico torinese: “Va segnalato l’approccio dialettico presente nel Manifesto di Ventotene, che si ispira chiaramente al modello del Manifesto del Partito Comunista, anche se l’orientamento ideologico è ovviamente diverso. Degli stati nazionali si vede la funzione progressiva svolta in una fase della storia (come il capitalismo per Marx), la crisi storica dovuta al loro essere superati dall’evoluzione del modo di produzione, le contraddizioni che emergono nella crisi (l’imperialismo egemonico e l’inconciliabilità fra sovranità nazionale assoluta e progresso in senso liberale, democratico e sociale), la possibilità da parte di un soggetto politico rivoluzionario di sfruttare queste contraddizioni per realizzare il federalismo sovranazionale” (S. Pistone, L’Unione dei Federalisti Europei, Guida, Napoli, 2008, pp. 34-35).
Ma non che si possa passare sotto silenzio il coraggio con cui gli antifascisti federalisti Rossi e Spinelli prendevano al tempo stesso le distanze dal marxismo. In uno scritto di “Ulisse” allegato all’edizione del Manifesto del ’44, quella preceduta dalla prefazione di Colorni (qui di seguito riprodotta), si definivano semplicemente ipocriti coloro che continuavano a propagandare il verbo di Marx, pur sapendo che ormai si trattava soltanto di un mito.
E per la verità si potrebbe notare anche un altro particolare, non privo di risvolti di attualità: da un certo punto di vista, il Manifesto metteva sullo stesso piano nazionalisti, democratici e marxisti, perché tutti erravano nel voler ricostruire la sovranità dei vecchi stati, responsabili di tante guerre fratricide. Al contempo additava a costoro la strada, sia consentito esprimersi così, della possibile redenzione: ossia l’adesione al federalismo sovranazionale. In altre parole, attorno all’impegno per gli Stati Uniti d’Europa e per la democrazia federale poteva essere ricostruita una nuova unità di intenti e di spiriti, superando le divisioni del passato.
Certo, non si può non ricordare che nella prefazione di Colorni all’edizione clandestina del ’44, fatta circolare in una Roma ancora occupata dalle truppe tedesche, i toni si attenuavano rispetto all’intransigenza del Manifesto vero e proprio: ormai i federalisti si erano orientati a dar vita non più ad un partito, ma ad un movimento, il Movimento Federalista Europeo (MFE), fondato a Milano nel tardo agosto del ’43, dopo la fine del regime mussoliniano, sempre ad opera di Spinelli, Rossi, Colorni ed altri. Inoltre il Manifesto stesso veniva presentato come l’opinione, seppur autorevole, di taluni intellettuali, ma non come la posizione ufficiale del Movimento.
La ragione stava nel fatto che il MFE intendeva collaborare strettamente con tutte le forze della Resistenza, comunisti compresi, per metter fine all’orribile esperienza nazifascista e per indurle ad aderire, se possibile, al federalismo europeo. Per di più risultava ormai chiaro che le superpotenze dell’Est e dell’Ovest si accampavano progressivamente sull’Europa, condizionandone le dinamiche interne.
Tuttavia non pare difficile rendersi conto che i temi di riflessione, le analisi e le proposte contenute nel Manifesto, al di là di talune ingenuità o errori di valutazione più tardi ammessi da Spinelli stesso, possedevano una forza interna destinata a sprigionarsi irresistibilmente con il passare dei decenni, specie dopo la fine della guerra fredda.
Tra le altre, le pagine dedicate alle riforme economiche postbelliche, con la ricerca di un equilibrio nuovo fra liberismo e statalismo, con l’attenzione dedicata alle esigenze dei giovani e dei lavoratori precari, con la diffidenza nei confronti del sindacalismo corporativo non meno che della finanza parassitaria, rivelano un’attualità sorprendente.
La stessa tradizione del socialismo non collettivista risulta valorizzata e rilanciata dal messaggio ventotenese, insieme ad impegno di progresso per tutta l’umanità, purché gli europei, beninteso, intendano responsabilmente farsene carico. Al contempo, la familiarità con il pensiero liberale e federalista anglosassone fa del Manifesto una delle espressioni della Resistenza più affini alla cultura dei “liberatori”, come Spinelli e Rossi non avrebbero mancato di confermare, con gli scritti e con l’azione politica, sia durante la guerra che nelle vicende successive.
Un testo, dunque, quello di Ventotene, come espressione delle migliori tradizioni culturali e della più ardita creatività dell’Occidente. E pertanto destinato, appunto, a resistere all’usura del tempo, anzi, a uscire vieppiù confermato dal duro confronto con le sfide della storia successiva.
I confinati Spinelli e Rossi si dedicarono al loro scritto pungolati dall’angoscia per la guerra tornata a dilaniare popoli e stati. Se c’è qualcosa di enfatico, di eccitato nelle loro pagine e nel loro disegno rivoluzionario, la ragione sta nell’ansia di chi si ritrovava nuovamente con il disastro di un civiltà davanti agli occhi e nel profondo dell’anima.
Una punta, almeno un punta di quell’ansia minaccia di riemergere di nuovo, proprio in questi tempi, nel cuore degli europei. Che valga almeno come stimolo per raccogliere il testimone dei visionari di Ventotene.

 

Prefazione di Eugenio Colorni (Roma 1944)

I presenti scritti sono stati concepiti e redatti nell’isola di Ventotene, negli anni 1941 e 1942. In quell’ambiente d’eccezione, fra le maglie di una rigidissima disciplina, attraverso un’informazione che con mille accorgimenti si cercava di rendere il più possibile completa, nella tristezza dell’inerzia forzata e nell’ansia della prossima liberazione, andava maturando in alcune menti un processo di ripensamento di tutti i problemi che avevano costituito il motivo stesso dell’azione compiuta e dell’atteggiamento preso nella lotta.
La lontananza dalla vita politica concreta permetteva uno sguardo più distaccato, e consigliava di rivedere le posizioni tradizionali, ricercando i motivi degli insuccessi passati non tanto in errori tecnici di tattica parlamentare o rivoluzionaria, od in una generica «immaturità» della situazione, quanto in insufficienze dell’impostazione generale, e nell’aver impegnato la lotta lungo le consuete linee di frattura, con troppo scarsa attenzione al nuovo che veniva modificando la realtà.
Preparandosi a combattere con efficienza la grande battaglia che si profilava per il prossimo avvenire, si sentiva il bisogno non semplicemente di correggere gli errori del passato, ma di rienunciare i termini dei problemi politici con mente sgombra da preconcetti dottrinari o da miti di partito.
Fu così che si fece strada, nella mente di alcuni, l’idea centrale che la contraddizione essenziale, responsabile delle crisi, delle guerre, delle miserie e degli sfruttamenti che travagliano la nostra società, è l’esistenza di stati sovrani, geograficamente, economicamente, militarmente individuati, consideranti gli altri stati come concorrenti e potenziali nemici, viventi gli uni rispetto agli altri in una situazione di perpetuo bellum omnium contra omnes. I motivi per cui questa idea, di per sé non nuova, assumeva un aspetto di novità nelle condizioni e nell’occasione in cui veniva pensata, sono vari:
1) Anzitutto, la soluzione internazionalista, che figura nel programma di tutti i partiti politici progressisti, viene da essi considerata,in un certo senso, come una conseguenza necessaria e quasi automatica del raggiungimento dei fini che ciascuno di essi si propone. I democratici ritengono che l’instaurazione, nell’ambito di ciascun paese, del regime da essi propugnato, condurrebbe sicuramente alla formazione di quella coscienza unitaria che, superando le frontiere nel campo culturale e morale, costituirebbe la premessa che essi ritengono indispensabile ad una libera unione di popoli anche nel campo politico ed economico. E i socialisti, dal canto loro, pensano che l’instaurazione di regimi di ditta-tura del proletariato nei vari stati, condurrebbe di per sé ad uno stato internazionale collettivista.
Ora, una analisi del concetto moderno di stato e dell’insieme di interessi e di sentimenti che ad esso sono legati, mostra chiaramente che, benché le analogie di regime interno possano facilitare i rapporti di amicizia e di collaborazione fra stato e stato, non è affatto detto che portino automaticamente e neppure progressivamente alla unificazione, finché esistano interessi e sentimenti collettivi legati al mantenimento di una unità chiusa all’interno delle frontiere. Sappiamo per esperienza che sentimenti sciovinistici ed interessi protezionistici possono facilmente condurre all’urto e alla concorrenza anche tra due democrazie; e non è detto che uno stato socialista ricco debba necessariamente accettare di mettere in comune le proprie risorse con un altro stato socialista molto più povero, per il solo fatto che in esso vige un regime interno analogo al proprio.
L’abolizione delle frontiere politiche ed economiche fra stato e stato non discende dunque necessariamente dall’instaurazione contemporanea di un dato regime interno in ciascuno stato; ma è un problema a sé stante, che va aggredito con mezzi propri e ad esso attagliantisi. Non si può essere socialisti, è vero, senza essere insieme internazionalisti; ma ciò per un legame ideologico, più che per una necessità politica ed economica; e dalla vittoria socialista nei singoli stati non discende necessariamente lo stato internazionale.
2) Ciò che spingeva inoltre ad accentuare in modo autonomo la tesi federalista, era il fatto che i partiti politici esistenti, legati ad un passato di lotte combattute nell’ambito di ciascuna nazione, sono avvezzi, per consuetudine e per tradizione, a porsi tutti i problemi partendo dal tacito presupposto dell’esistenza dello stato nazionale, ed a considerare i problemi dell’ordinamento internazionale come questioni di «politica estera», da risolversi mediante azioni diplomatiche e accordi fra i vari governi. Questo atteggiamento è in parte causa, in parte conseguenza di quello prima accennato, secondo cui, una volta afferrate le redini di comando nel proprio paese, l’accordo e l’unione con regimi affini in altri paesi è cosa che viene da sé, senza bisogno di dar luogo ad una lotta politica a ciò espressamente dedicata.
Negli autori dei presenti scritti si era invece radicata la convinzione che chi voglia proporsi il problema dell’ordinamento internazionale come quello centrale dell’attuale epoca storica, e consideri la soluzione di esso come la premessa necessaria per la soluzione di tutti i problemi istituzionali, economici, sociali che si impongono alla nostra società, debba di necessità considerare da questo punto di vista tutte le questioni riguardanti i contrasti politici interni e l’atteggiamento di ciascun partito, anche riguardo alla tattica e alla strategia nella lotta quotidiana. Tutti i problemi, da quello delle libertà costituzionali a quello della lotta di classe, da quello della pianificazione a quello della presa del potere e dell’uso di esso, ricevono una nuova luce se vengono posti partendo dalla premessa che la prima mèta da raggiungere è quella di un ordinamento unitario nel campo internazionale. La stessa manovra politica, l’appoggiarsi all’una od all’altra delle forze in giuoco, l’accentuare l’una o l’altra parola d’ordine, assume aspetti ben diversi, a seconda che si consideri come scopo essenziale la presa del potere e l’attuazione di determinate riforme nell’ambito di ciascun singolo stato, oppure la creazione delle premesse economiche, politiche, morali per la instaurazione di un ordinamento federale che abbracci tutto il continente.
3) Un altro motivo ancora – e forse il più importante – era costituito dal fatto che l’ideale di una federazione europea, preludio di una federazione mondiale, mentre poteva apparire lontana utopia ancora qualche anno fa, si presenta oggi, alla fine di questa guerra, come una mèta raggiungibile e quasi a portata di mano. Nel totale rimescolamento di popoli che questo conflitto ha provocato in tutti i paesi soggetti all’occupazione tedesca, nella necessità di ricostruire su basi nuove una economia quasi totalmente distrutta, e di rimettere sul tappeto tutti i problemi riguardanti i confini politici, le barriere doganali, le minoranze etniche ecc.; nel carattere stesso di questa guerra, in cui l’elemento nazionale è stato così spesso sopravanzato dall’elemento ideologico, in cui si sono visti piccoli e medi stati rinunziare a gran parte della loro sovranità a favore degli stati più forti, e in cui da parte degli stessi fascisti il concetto di «spazio vitale» si è sostituito a quello di «indipendenza nazionale»; in tutti questi elementi sono da ravvisare dei dati che rendono attuale come non mai, in questo dopoguerra, il problema dell’ordinamento federale dell’Europa.
Forze provenienti da tutte le classi sociali, per motivi sia economici sia ideali, possono essere interessate ad esso. Ad esso ci si potrà avvicinare per via di trattative diplomatiche e per via di agitazione popolare; promuovendo fra le classi colte lo studio dei problemi ad esso attinenti, e provocando stati di fatto rivoluzionari, avvenuti i quali non sia più possibile tornare indietro; influendo sulle sfere dirigenti degli stati vincitori, ed agitando negli stati vinti la parola che solo in una Europa libera e unita essi possono trovare la loro salvezza ed evitare le disastrose conseguenze della sconfitta. Appunto per questo è sorto il nostro Movimento. È la preminenza, l’anteriorità di questo problema rispetto a tutti quelli che si impongono nell’epoca in cui ci stiamo inoltrando; è la sicurezza che, se lasceremo risolidificare la situazione nei vecchi stampi nazionalistici, l’occasione sarà persa per sempre, e nessuna pace e benessere duraturo ne potrà avere il nostro continente; è tutto questo che ci ha spinto a creare un’organizzazione autonoma, allo scopo di propugnare l’idea della Federazione Europea come mèta realizzabile nel prossimo dopoguerra.
Non ci nascondiamo le difficoltà della cosa, e la potenza delle forze che opereranno nel senso contrario; ma è la prima volta, crediamo, che questo problema si pone sul tappeto della lotta politica, non come un lontano ideale, ma come una impellente, tragica necessità.
Il nostro Movimento, che vive oramai da circa due anni della difficile vita clandestina sotto l’oppressione fascista e nazista; i cui aderenti provengono dalle file dei militanti dell’antifascismo e sono tutti in linea nella lotta armata per la libertà; che ha già pagato il suo duro contributo di carcere per la causa comune; il nostro Movimento non è e non vuol essere un partito politico. Così come si è venuto sempre più nettamente caratterizzando, esso vuole operare sui vari partiti politici e nell’interno di essi, non solo affinché l’istanza internazionalista venga accentuata, ma anche e principalmente affinché tutti i problemi della sua vita politica vengano impostati partendo da questo nuovo angolo visuale, a cui finora sono stati così poco avvezzi.
Non siamo un partito politico perché, pur promuovendo attivamente ogni studio riguardante l’assetto istituzionale, economico, sociale della Federazione Europea, e pur prendendo parte attiva alla lotta per la sua realizzazione e preoccupandoci di scoprire quali forze potranno agire in favore di essa nella futura congiuntura politica, non vogliamo pronunciarci ufficialmente sui particolari istituzionali, sul grado maggiore o minore di collettivizzazione economica, sul maggiore o minore decentramento amministrativo ecc. ecc., che dovranno caratterizzare il futuro organismo federale. Lasciamo che nel seno del nostro movimento questi problemi vengano ampiamente e liberamente discussi, e che tutte le tendenze politiche, da quella comunista a quella liberale, siano presso di noi rappresentate. Di fatto, i nostri aderenti militano quasi tutti in qualcuno dei partiti politici progressivi: tutti si accordano nel propugnare quelli che sono i principii basilari di una libera federazione europea, non basata su egemonie di sorta, né su ordinamenti totalitari, e dotata di quella solidità strutturale che non la riduca ad una semplice Società delle Nazioni. Tali principi si possono riassumere nei seguenti punti: esercito unico federale, unità monetaria, abolizione delle barriere doganali e delle limitazioni all’emigrazione tra gli stati appartenenti alla Federazione, rappresentanza diretta dei cittadini ai consessi federali, politica estera unica.
In questi due anni di vita, il nostro Movimento si è largamente diffuso fra i gruppi ed i partiti politici antifascisti. Alcuni di essi ci hanno espresso pubblicamente la loro adesione e la loro simpatia. Altri ci hanno chiamato a collaborare alle loro formulazioni programmatiche. Non è forse presuntuoso dire che è in parte merito nostro, se i problemi della Federazione Europea vengono così spesso trattati nella stampa clandestina italiana. Il nostro giornale, «L’Unità Europea», segue con attenzione gli avvenimenti della politica interna ed internazionale, prendendo posizione di fronte ad essi con assoluta indipendenza di giudizio. I presenti scritti, frutto dell’elaborazione di idee che ha dato luogo alla nascita del nostro Movimento, non rappresentano però che l’opinione dei loro autori, e non costituiscono affatto una presa di posizione del Movimento stesso. Vogliono solo essere una proposizione di temi di discussione a coloro che vogliono ripensare tutti i problemi della vita politica internazionale tenendo conto delle più recenti esperienze ideologiche e politiche, dei risultati più aggiornati della scienza economica, delle più sensate e ragionevoli prospettive per l’avvenire. Saranno presto seguiti da altri studi. Il nostro augurio è che possano suscitare fermento di idee; e che, nella presente atmosfera arroventata dall’impellente necessità dell’azione, portino un contributo di chiarificazione che renda l’azione sempre più decisa, cosciente e responsabile.
Il Movimento italiano per la federazione europea
Roma, 22 Gennaio 1944

 

Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un Manifesto
Ventotene, 1941
Altiero Spinelli, Ernesto Rossi

I. La crisi della civiltà moderna

La civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio della libertà, secondo il quale l’uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita. Con questo codice alla mano si è venuto imbastendo un grandioso processo storico a tutti gli aspetti della vita sociale, che non lo rispettassero.
1°) Si è affermato l’eguale diritto a tutte le nazioni di organizzarsi in stati indipendenti. Ogni popolo, individuato dalle sue caratteristiche etniche, geografiche, linguistiche e storiche, doveva trovare nell’organismo statale creato per proprio conto, secondo la sua particolare concezione della vita politica, lo strumento per soddisfare nel modo migliore i suoi bisogni, indipendentemente da ogni intervento estraneo. L’ideologia dell’indipendenza nazionale è stata un potente lievito di progresso; ha fatto superare i meschini campanilismi in un senso di più vasta solidarietà contro l’oppressione degli stranieri dominatori; ha eliminato molti degli inciampi che ostacolavano la circolazione degli uomini e delle merci; ha fatto estendere entro il territorio di ciascun nuovo stato alle popolazioni più arretrate le istituzioni e gli ordinamenti delle popolazioni più civili. Essa portava però in sé i germi dell’imperialismo capitalista, che la nostra generazione ha visto ingigantire, sino alla formazione degli stati totalitari ed allo scatenarsi delle guerre mondiali. La nazione non è ora più considerata come lo storico prodotto della convivenza di uomini che, pervenuti grazie ad un lungo processo ad una maggiore unità di costumi e di aspirazioni, trovano nel loro stato la forma più efficace per organizzare la vita collettiva entro il quadro di tutta la società umana; è invece divenuta un’entità divina, un organismo che deve pensare solo alla propria esistenza ed al proprio sviluppo, senza in alcun modo curarsi del danno che gli altri possano risentirne. La sovranità assoluta degli stati nazionali ha portato alla volontà di dominio di ciascuno di essi, poiché ciascuno si sente minacciato dalla potenza degli altri e considera suo «spazio vitale» territori sempre più vasti, che gli permettano di muoversi liberamente e di assicurarsi i mezzi di esistenza, senza dipendere da alcuno. Questa volontà di dominio non potrebbe acquetarsi che nella egemonia dello stato più forte su tutti gli altri asserviti. In conseguenza di ciò, lo stato, da tutelatore della libertà dei cittadini, si è trasformato in padrone di sudditi tenuti a servizio, con tutte le facoltà per renderne massima l’efficienza bellica. Anche nei periodi di pace, considerati come soste per la preparazione alle inevitabili guerre successive, la volontà dei ceti militari predomina ormai in molti paesi su quella dei ceti civili, rendendo sempre più difficile il funzionamento di ordinamenti politici liberi: la scuola, la scienza, la produzione, l’organismo amministrativo sono principalmente diretti ad aumentare il potenziale bellico; le madri vengono considerate come fattrici di soldati, ed in conseguenza premiate con gli stessi criteri con i quali alle mostre si premiano le bestie prolifiche; i bambini vengono educati fin dalla più tenera età al mestiere delle armi e all’odio verso gli stranieri, le libertà individuali si riducono a nulla, dal momento che tutti sono militarizzati e continuamente chiamati a prestare servizio militare; le guerre a ripetizione costringono ad abbandonare la famiglia, l’impiego, gli averi, ed a sacrificare la vita stessa per obbiettivi di cui nessuno capisce veramente il valore; in poche giornate vengono distrutti i risultati di decenni di sforzi compiuti per aumentare il benessere collettivo.
Gli stati totalitari sono quelli che hanno realizzato nel modo più coerente l’unificazione di tutte le forze, attuando il massimo di accentramento e di autarchia, e si sono perciò dimostrati gli organismi più adatti all’odierno ambiente internazionale. Basta che una nazione faccia un passo in avanti verso un più accentuato totalitarismo, perché sia seguita dalle altre trascinate nello stesso solco dalla volontà di sopravvivere.
2°) Si è affermato l’eguale diritto di tutti i cittadini alla formazione della volontà dello stato. Questa doveva così risultare la sintesi delle mutevoli esigenze economiche e ideologiche di tutte le categorie sociali liberamente espresse. Tale organizzazione politica ha permesso di correggere o almeno di attenuare molte delle più stridenti ingiustizie ereditarie dei regimi passati. Ma la libertà di stampa e di associazione, e la progressiva estensione del suffragio, rendevano sempre più difficile la difesa dei vecchi privilegi, mantenendo il sistema rappresentativo. I nullatenenti a poco a poco imparavano a servirsi di questi strumenti per dare l’assalto ai diritti acquisiti dalle classi abbienti; le imposte sociali sui redditi non guadagnati e sulle successioni, le aliquote progressive sulle maggiori fortune, la esenzione dei redditi minimi e dei beni di prima necessità, la gratuità della scuola pubblica, l’aumento delle spese di assistenza e di previdenza sociale, le riforme agrarie, il controllo delle fabbriche, minacciavano i ceti privilegiati nelle loro più fortificate cittadelle. Anche i ceti privilegiati che avevano consentito all’eguaglianza dei diritti politici, non potevano ammettere che le classi diseredate se ne valessero per cercare di realizzare quell’uguaglianza di fatto che avrebbe dato a tali diritti un contenuto concreto di effettiva libertà. Quando, dopo la fine della prima guerra mondiale, la minaccia divenne troppo grave, fu naturale che tali ceti applaudissero calorosamente ed appoggiassero l’instaurazione delle dittature, che toglievano le armi legali di mano ai loro avversari. D’altra parte la formazione di giganteschi complessi industriali e bancari e di sindacati riunenti sotto un’unica direzione interi eserciti di lavoratori, sindacati e complessi che premevano sul governo per ottenere la politica più rispondente ai loro particolari interessi, minacciava di dissolvere lo stato stesso in tante baronie economiche in acerba lotta fra loro. Gli ordinamenti democratico liberali, divenendo lo strumento di cui questi gruppi si servivano per meglio sfruttare l’intera collettività, perdevano sempre più il loro prestigio, e così si diffondeva la convinzione che solamente lo stato totalitario, abolendo le libertà popolari, potesse in qualche modo risolvere i conflitti di interessi che le istituzioni politiche esistenti non riuscivano più a contenere.
Di fatto, poi, i regimi totalitari hanno consolidato in complesso la posizione delle varie categorie sociali nei punti volta a volta raggiunti, ed hanno precluso col controllo poliziesco di tutta la vita dei cittadini e con la violenta eliminazione di tutti i dissenzienti, ogni possibilità legale di ulteriore correzione dello stato di cose vigenti. Si è così assicurata l’esistenza del ceto assolutamente parassitario dei proprietari terrieri assenteisti e dei redditieri che contribuiscono alla produzione sociale solo nel tagliare le cedole dei loro titoli; dei ceti monopolistici e delle società a catena che sfruttano i consumatori, e fanno volatilizzare i denari dei piccoli risparmiatori; dei plutocrati che, nascosti dietro le quinte, tirano i fili degli uomini politici per dirigere tutta la macchina dello stato a proprio esclusivo vantaggio, sotto l’apparenza del perseguimento dei superiori interessi nazionali. Sono conservate le colossali fortune di pochi e la miseria delle grandi masse, escluse da ogni possibilità di godere i frutti della moderna cultura. È salvato, nelle sue linee sostanziali, un regime economico in cui le riserve materiali e le forze di lavoro, che dovrebbero essere rivolte a soddisfare i bisogni fondamentali per lo sviluppo delle energie vitali umane, vengono invece indirizzate alla soddisfazione dei desideri più futili di coloro che sono in grado di pagare i prezzi più alti; un regime economico in cui, col diritto di successione, la potenza del denaro si perpetua nello stesso ceto, trasformandosi in un privilegio senza alcuna corrispondenza al valore sociale dei servizi effettivamente prestati, e il campo delle possibilità proletarie resta così ridotto, che per vivere i lavoratori sono spesso costretti a lasciarsi sfruttare da chi offra loro una qualsiasi possibilità di impiego.
Per tenere immobilizzate e sottomesse le classi operaie, i sindacati sono stati trasformati, da liberi organismi di lotta, diretti da individui che godevano la fiducia degli associati, in organi di sorveglianza poliziesca, sotto la direzione di impiegati scelti dal gruppo governante e verso esso solo responsabili. Se qualche correzione viene fatta a un tale regime economico, è sempre solo dettata dalle esigenze del militarismo, che hanno confluito con le reazionarie aspirazioni dei ceti privilegiati nel far sorgere e consolidare gli stati totalitari.
3°) Contro il dogmatismo autoritario, si è affermato il valore permanente dello spirito critico. Tutto quello che veniva asserito, doveva dare ragione di sé o scomparire. Alla metodicità di questo spregiudicato atteggiamento, sono dovute le maggiori conquiste della nostra società in ogni campo. Ma questa libertà spirituale non ha resistito alla crisi che ha fatto sorgere gli stati totalitari. Nuovi dogmi da accettare per fede, o da accettare ipocritamente, si stanno accampando da padroni in tutte le scienze.
Quantunque nessuno sappia che cosa sia una razza, e le più elementari nozioni storiche ne facciano risultare l’assurdità, si esige dai fisiologi di credere, dimostrare e convincere che si appartiene ad una razza eletta, solo perché l’imperialismo ha bisogno di questo mito per esaltare nelle masse l’odio e l’orgoglio. I più evidenti concetti della scienza economica debbono essere considerati anatemi per presentare la politica autarchica, gli scambi bilanciati e gli altri ferri vecchi del mercantilismo, come straordinarie scoperte dei nostri tempi. A causa della interdipendenza economica di tutte le parti del mondo, spazio vitale per ogni popolo che voglia conservare il livello di vita corrispondente alla civiltà moderna è tutto il globo; ma si è creata la pseudo scienza della geopolitica, che vuol dimostrare la consistenza della teoria degli spazi vitali, per dar veste teorica alla volontà di sopraffazione dell’imperialismo.
La storia viene falsificata nei suoi dati essenziali, nell’interesse della classe governante. Le biblioteche e le librerie vengono purificate di tutte le opere non considerate ortodosse. Le tenebre dell’oscurantismo di nuovo minacciano di soffocare lo spirito umano. La stessa etica sociale della libertà e dell’eguaglianza è scalzata. Gli uomini non sono più considerati cittadini liberi, che si valgono dello stato per meglio raggiungere i loro fini collettivi. Sono servitori dello stato, che stabilisce quali debbano essere i loro fini, e come volontà dello stato viene senz’altro assunta la volontà di coloro che detengono il potere. Gli uomini non sono più soggetti di diritto, ma, gerarchicamente disposti, sono tenuti ad ubbidire senza discutere alle autorità superiori che culminano in un capo debitamente divinizzato. Il regime delle caste rinasce prepotente dalle sue stesse ceneri.
Questa reazionaria civiltà totalitaria, dopo aver trionfato in una serie di paesi, ha infine trovato nella Germania nazista la potenza che si è ritenuta capace di trarne le ultime conseguenze. Dopo una meticolosa preparazione, approfittando con audacia e senza scrupoli delle rivalità, degli egoismi, della stupidità altrui, trascinando al suo seguito altri stati vassalli europei – primo fra i quali l’Italia – alleandosi col Giappone, che persegue fini identici in Asia, essa si è lanciata nell’opera di sopraffazione. La sua vittoria significherebbe il definitivo consolidamento del totalitarismo nel mondo. Tutte le sue caratteristiche sarebbero esasperate al massimo, e le forze progressive sarebbero condannate per lungo tempo ad una semplice opposizione negativa.
La tradizionale arroganza ed intransigenza dei ceti militari tedeschi può già darci un’idea di quel che sarebbe il carattere del loro dominio, dopo una guerra vittoriosa. I tedeschi, vittoriosi, potrebbero anche permettersi una lustra di generosità verso gli altri popoli europei, rispettare formalmente i loro territori e le loro istituzioni politiche, per governare così soddisfacendo lo stupido sentimento patriottico che guarda ai colori dei pali di confine ed alla nazionalità degli uomini politici che si presentano alla ribalta, invece che al rapporto delle forze ed al contenuto effettivo degli organismi dello stato. Comunque camuffata, la realtà sarebbe sempre la stessa: una rinnovata divisione dell’umanità in Spartiati ed Iloti.
Anche una soluzione di compromesso tra le parti in lotta, significherebbe un ulteriore passo innanzi del totalitarismo, poiché tutti i paesi che fossero sfuggiti alla stretta della Germania, sarebbero costretti ad adottare le sue stesse forme di organizzazione politica, per prepararsi adeguatamente alla ripresa della guerra.
Ma la Germania hitleriana, se ha potuto abbattere ad uno ad uno gli stati minori, con la sua azione ha costretto forze sempre più potenti a scendere in lizza. La coraggiosa combattività della Gran Bretagna, anche nel momento più critico in cui era rimasta sola a tener testa al nemico, ha fatto sì che i tedeschi sieno andati a cozzare contro la strenua resistenza dell’esercito sovietico e ha dato tempo all’America di avviare la mobilitazione delle sue sterminate risorse produttive. E questa lotta contro l’imperialismo tedesco si è strettamente connessa con quella che il popolo cinese va conducendo contro l’imperialismo giapponese.
Immense masse di uomini e di ricchezze sono già schierate contro le potenze totalitarie; le forze di queste potenze hanno raggiunto il loro culmine, e non possono ormai che consumarsi progressivamente. Quelle avverse hanno invece già superato il momento della massima depressione, e sono in ascesa. La guerra degli alleati risveglia ogni giorno di più la volontà di liberazione, anche nei paesi che avevano soggiaciuto alla violenza ed erano stati smarriti per il colpo ricevuto; e persino risveglia tale volontà negli stessi popoli delle potenze dell’Asse, i quali si accorgono di essere trascinati in una situazione disperata, solo per soddisfare la brama di dominio dei loro padroni.
Il lento processo, grazie al quale enormi masse di uomini si lasciavano modellare passivamente dal nuovo regime, vi si adeguavano e contribuivano così a consolidarlo, è arrestato; si è invece iniziato il processo contrario. In questa immensa ondata che lentamente si solleva, si ritrovano tutte le forze progressive, le parti più illuminate delle classi lavoratrici che non si sono lasciate distogliere dal terrore e dalle lusinghe nella loro aspirazione ad una superiore forma di vita; gli elementi più consapevoli dei ceti intellettuali, offesi dalla degradazione cui è sottoposta la intelligenza; imprenditori che, sentendosi capaci di nuove iniziative, vorrebbero liberarsi dalle bardature burocratiche e dalle autarchie nazionali, che impacciano ogni loro movimento; tutti coloro infine che, per un senso innato di dignità, non sanno piegar la spina dorsale nell’umiliazione della servitù.
A tutte queste forze è oggi affidata la salvezza della nostra civiltà.

II. I compiti del dopoguerra. L’Unità Europea

La sconfitta della Germania non porterebbe però automaticamente al riordinamento dell’Europa secondo il nostro ideale di civiltà.
Nel breve intenso periodo di crisi generale (in cui gli stati giaceranno fracassati al suolo, in cui le masse popolari attenderanno ansiose le parole nuove e saranno materia fusa, ardente, suscettibile di essere colata in forme nuove, capaci di accogliere la guida di uomini seriamente internazionalisti), i ceti che più erano privilegiati nei vecchi sistemi nazionali, cercheranno subdolamente o con la violenza di smorzare l’ondata dei sentimenti e delle passioni internazionaliste, e si daranno ostentatamente a ricostituire i vecchi organismi statali. Ed è probabile che i dirigenti inglesi, magari d’accordo con quelli americani, tentino di spingere le cose in questo senso, per riprendere la politica dell’equilibrio dei poteri, nell’apparente immediato interesse dei loro imperi.
Le forze conservatrici, cioè: i dirigenti delle istituzioni fondamentali degli stati nazionali; i quadri superiori delle forze armate, culminanti, là dove ora esistono, nelle monarchie; quei gruppi del capitalismo monopolista che hanno legato le sorti dei loro profitti a quelle degli stati; i grandi proprietari fondiari e le alte gerarchie ecclesiastiche che solo da una stabile società conservatrice possono vedere assicurate le loro entrate parassitarie; ed al loro seguito tutto l’innumerevole stuolo di coloro che da essi dipendono o che anche sono solo abbagliati dalla loro tradizionale potenza; tutte queste forze reazionarie già fin da oggi sentono che l’edificio scricchiola, e cercano di salvarsi. Il crollo le priverebbe di colpo di tutte le garanzie che hanno avuto finora, e le esporrebbe all’assalto delle forze progressiste.
La situazione rivoluzionaria: vecchie e nuove correnti
La caduta dei regimi totalitari significherà sentimentalmente per interi popoli l’avvento della «libertà»; sarà scomparso ogni freno, ed automaticamente regneranno amplissime libertà di parola e di associazione. Sarà il trionfo delle tendenze democratiche. Esse hanno innumerevoli sfumature, che vanno da un liberalismo molto conservatore fino al socialismo e all’anarchia. Credono nella «generazione spontanea» degli avvenimenti e delle istituzioni, nella bontà assoluta degli impulsi che vengono dal basso. Non vogliono forzare la mano alla «storia», al «popolo», al «proletariato » e come altro chiamano il loro Dio. Auspicano la fine delle dittature, immaginandola come la restituzione al popolo degli imprescrittibili diritti di autodeterminazione. Il coronamento dei loro sogni è un’assemblea costituente, eletta col più esteso suffragio e col più scrupoloso rispetto del diritto degli elettori, la quale decida che costituzione debba darsi. Se il popolo è immaturo, se ne darà una cattiva; ma correggerla si potrà solo mediante una costante opera di convinzione.
I democratici non rifuggono per principio dalla violenza; ma la vogliono adoperare solo quando la maggioranza sia convinta della sua indispensabilità, cioè propriamente quando non è più altro che un pressoché superfluo puntino da mettere sull’«i», sono perciò dirigenti adatti solo nelle epoche di ordinaria amministrazione, in cui un popolo è nel suo complesso convinto della bontà delle istituzioni fondamentali, che debbono essere solo ritoccate in aspetti relativamente secondari. Nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono già essere amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente. La pietosa impotenza dei democratici nella rivoluzione russa, tedesca, spagnola, sono tre dei più recenti esempi. In tali situazioni, caduto il vecchio apparato statale, colle sue leggi e la sua amministrazione, pullulano immediatamente, con sembianze di vecchia legalità, o sprezzandola, una quantità di assemblee e rappresentanze popolari in cui convergono e si agitano tutte le forze sociali progressiste. Il popolo ha sì alcuni fondamentali bisogni da soddisfare, ma non sa con precisione cosa volere e cosa fare. Mille campane suonano alle sue orecchie. Con i suoi milioni di teste non riesce ad orientarsi, e si disgrega in una quantità di tendenze in lotta fra loro.
Nel momento in cui occorre la massima decisione e audacia, i democratici si sentono smarriti, non avendo dietro di sé uno spontaneo consenso popolare, ma solo un torbido tumultuare di passioni. Pensano che loro dovere sia di formare quel consenso, e si presentano come predicatori esortanti, laddove occorrono capi che guidino sapendo dove arrivare. Perdono le occasioni favorevoli al consolidamento del nuovo regime, cercando di far funzionare subito organi che presuppongono una lunga preparazione, e sono adatti ai periodi di relativa tranquillità; danno ai loro avversari armi di cui quelli poi si valgono per rovesciarli; rappresentano insomma, nelle loro mille tendenze, non già la volontà di rinnovamento, ma le confuse velleità regnanti in tutte le menti, che, paralizzandosi a vicenda, preparano il terreno propizio allo sviluppo della reazione. La metodologia politica democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria.
Man mano che i democratici logorassero nelle loro logomachie la loro prima popolarità di assertori della libertà, mancando ogni seria rivoluzione politica e sociale, si andrebbero immancabilmente ricostituendo le istituzioni politiche pretotalitarie, e la lotta tornerebbe a svilupparsi secondo i vecchi schemi della contrapposizione delle classi.
Il principio secondo il quale la lotta di classe è il termine cui van ridotti tutti i problemi politici, ha costituito la direttiva fondamentale specialmente degli operai delle fabbriche, ed ha giovato a dare consistenza alla loro politica, finché non erano in questione le istituzioni fondamentali; ma si converte in uno strumento di isolamento del proletariato, quando si imponga la necessità di trasformare l’intera organizzazione della società. Gli operai, educati classisticamente, non sanno allora vedere che le loro particolari rivendicazioni di classe, o addirittura di categoria, senza curarsi del come connetterle con gli interessi degli altri ceti; oppure aspirano alla unilaterale dittatura della loro classe, per realizzare l’utopistica collettivizzazione di tutti gli strumenti materiali di produzione, indicata da una propaganda secolare come il rimedio sovrano di tutti i loro mali. Questa politica non riesce a far presa su nessun altro strato, fuorché sugli operai, i quali così privano le altre forze progressive del loro sostegno, o le lasciano cadere in balìa della reazione che abilmente le organizza per spezzare le reni allo stesso movimento proletario.
Fra le varie tendenze proletarie, seguaci della politica classista e dell’ideale collettivista, i comunisti hanno riconosciuta la difficoltà di ottenere un seguito di forze sufficienti per vincere, e per ciò si sono – a differenza degli altri partiti popolari – trasformati in un movimento rigidamente disciplinato, che sfrutta il mito russo per organizzare gli operai, ma non prende legge da essi e li utilizza nelle più disparate manovre.
Questo atteggiamento rende i comunisti, nelle crisi rivoluzionarie, più efficienti dei democratici; ma, tenendo essi distinte quanto più possono le classi operaie dalle altre forze rivoluzionarie – col predicare che la loro «vera» rivoluzione è ancora da venire – costituiscono, nei momenti decisivi, un elemento settario che indebolisce il tutto. Inoltre, la loro assoluta dipendenza dallo stato russo, che li ha ripetutamente adoperati per il perseguimento della sua politica nazionale, impedisce loro di svolgere alcuna politica con un minimo di continuità. Hanno sempre bisogno di nascondersi dietro un Karoly, un Blum, un Negrin, per andare poi facilmente in rovina insieme con i fantocci democratici adoperati; poiché il potere si consegue e mantiene non semplicemente con la furberia, ma con la capacità di rispondere in modo organico e vitale alla necessità della società moderna.
Se la lotta restasse domani ristretta nel tradizionale campo nazionale, sarebbe molto difficile sfuggire alle vecchie aporie. Gli stati nazionali hanno infatti già così profondamente pianificato le rispettive economie, che la questione centrale diverrebbe ben presto quella di sapere quale gruppo di interessi economici, cioè quale classe dovrebbe detenere le leve di comando del piano. Il fronte delle forze progressiste sarebbe facilmente frantumato nella rissa fra classi e categorie economiche. Con la maggiore probabilità i reazionari sarebbero coloro che ne trarrebbero profitto. Un vero movimento rivoluzionario dovrà sorgere da coloro che han saputo criticare le vecchie impostazioni politiche; dovrà saper collaborare con le forze democratiche, con quelle comuniste, e in genere con quanti cooperino alla disgregazione del totalitarismo; ma senza lasciarsi irretire dalla prassi politica di nessuna di esse.
Le forze reazionarie hanno uomini e quadri abili ed educati al comando, che si batteranno accanitamente per conservare la loro supremazia. Nel grave momento sapranno presentarsi ben camuffati, si proclameranno amanti della libertà, della pace, del benessere generale, delle classi più povere. Già nel passato abbiamo visto come si siano insinuate dietro i movimenti popolari, e li abbiano paralizzati, deviati, convertiti nel preciso contrario. Senza dubbio saranno la forza più pericolosa con cui si dovranno fare i conti.
Il punto sul quale esse cercheranno di far leva sarà la restaurazione dello stato nazionale. Potranno così far presa sul sentimento popolare più diffuso, più offeso dai recenti movimenti, più facilmente adoperabile a scopi reazionari: il sentimento patriottico. In tal modo possono anche sperare di più facilmente confondere le idee degli avversari, dato che per le masse popolari l’unica esperienza politica finora acquisita è quella svolgentesi entro l’ambito nazionale, ed è perciò abbastanza facile convogliare sia esse che i loro capi più miopi sul terreno della ricostruzione degli stati abbattuti dalla bufera.
Se questo scopo venisse raggiunto, la reazione avrebbe vinto. Potrebbero pure questi stati essere in apparenza largamente democratici e socialisti; il ritorno del potere nelle mani dei reazionari sarebbe solo questione di tempo. Risorgerebbero le gelosie nazionali, e ciascuno stato di nuovo riporrebbe la soddisfazione delle proprie esigenze solo nella forza delle armi. Compito precipuo tornerebbe ad essere a più o meno breve scadenza quello di convertire i popoli in eserciti. I generali tornerebbero a comandare, i monopolisti a profittare delle autarchie, i corpi burocratici a gonfiarsi, i preti a tener docili le masse. Tutte le conquiste del primo momento si raggrinzirebbero in un nulla, di fronte alla necessità di prepararsi nuovamente alla guerra.
Il problema che in primo luogo va risolto e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani. Il crollo della maggior parte degli stati del continente sotto il rullo compressore tedesco ha già accomunato la sorte dei popoli europei, che, o tutti insieme soggiaceranno al dominio hitleriano, o tutti insieme entreranno, con la caduta di questo, in una crisi rivoluzionaria in cui non si troveranno irrigiditi e distinti in soli de strutture statali. Gli spiriti sono già ora molto meglio disposti che in passato ad una riorganizzazione federale dell’Europa. La dura esperienza degli ultimi decenni ha aperto gli occhi anche a chi non voleva vedere, ed ha fatto maturare molte circostanze favorevoli al nostro ideale.
Tutti gli uomini ragionevoli riconoscono ormai che non si può mantenere un equilibrio di stati europei indipendenti, con la convivenza della Germania militarista a parità di condizioni degli altri paesi, né si può spezzettare la Germania e tenerle il piede sul collo una volta che sia vinta. Alla prova, è apparso evidente che nessun paese in Europa può restarsene da parte mentre gli altri si battono, a niente valendo le dichiarazioni di neutralità e di patti di non aggressione. È ormai dimostrata l’inutilità, anzi la dannosità di organismi sul tipo della Società delle Nazioni, che pretendeva di garantire un diritto internazionale senza una forza militare capace di imporre le sue decisioni, e rispettando la sovranità assoluta degli stati partecipanti. Assurdo è risultato il principio del non intervento, secondo il quale ogni popolo dovrebbe essere lasciato libero di darsi il governo dispotico che meglio crede, quasi che la costituzione interna di ogni singolo stato non costituisse un interesse vitale per tutti gli altri paesi europei. Insolubili sono diventati i molteplici problemi che avvelenano la vita internazionale del continente – tracciato dei confini nelle zone di popolazione mista, difesa delle minoranze allogene, sbocco al mare dei paesi situati nell’interno, questione balcanica, questione irlandese, ecc. – che troverebbe nella Federazione Europea la più semplice soluzione – come l’hanno trovata in passato i corrispondenti problemi degli staterelli entrati a far parte della più vasta unità nazionale avendo perso la loro acredine, col trasformarsi in problemi di rapporti fra le diverse provincie.
D’altra parte, la fine del senso di sicurezza dato dalla inattaccabilità della Gran Bretagna, che consigliava agli inglesi la «splendid isolation», la dissoluzione dell’esercito e della stessa repubblica francese al primo serio urto delle forze tedesche (risultato che è da sperare abbia di molto smorzata la convinzione sciovinista dell’assoluta superiorità gallica) e specialmente la coscienza della gravità del pericolo corso di generale asservimento, sono tutte circostanze che favoriranno la costituzione di un regime federale, che ponga fine all’attuale anarchia. E il fatto che l’Inghilterra abbia ormai accettato il principio dell’indipendenza indiana, e la Francia abbia potenzialmente perduto col riconoscimento della sconfitta tutto il suo impero, rendono più agevole trovare anche una base di accordo per una sistemazione europea nei possedimenti coloniali.
A tutto ciò va aggiunta infine la scomparsa di alcune delle principali dinastie, e la fragilità delle basi che sostengono quelle superstiti. Va tenuto conto infatti che le dinastie, considerando i diversi paesi come proprio tradizionale appannaggio, rappresentavano, con i poderosi interessi di cui eran l’appoggio, un serio ostacolo alla organizzazione razionale degli Stati Uniti d’Europa, i quali non possono poggiare che sulla costituzione repubblicana di tutti i paesi federati. E quando, superando l’orizzonte del Vecchio Continente, si abbraccino in una visione di insieme tutti i popoli che costituiscono l’umanità, bisogna pur riconoscere che la Federazione Europea è l’unica concepibile garanzia che i rapporti con i popoli asiatici e americani si possano svolgere su una base di pacifica cooperazione, in attesa di un più lontano avvenire, in cui diventi possibile l’unità politica dell’intero globo.
La linea di divisione fra partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa quelli che concepiscono come fine essenziale della lotta quello antico, cioè la conquista del potere politico nazionale – e che faranno, sia pure involontariamente, il gioco delle forze reazionarie lasciando solidificare la lava incandescente delle passioni popolari nel vecchio stampo, e risorgere le vecchie assurdità – e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopreranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale.
Con la propaganda e con l’azione, cercando di stabilire in tutti i modi accordi e legami fra i singoli movimenti che nei vari paesi si vanno certamente formando, occorre sin d’ora gettare le fondamenta di un movimento che sappia mobilitare tutte le forze per far nascere il nuovo organismo che sarà la creazione più grandiosa e più innovatrice sorta da secoli in Europa; per costituire un saldo stato federale, il quale disponga di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali; spezzi decisamente le autarchie economiche, spina dorsale dei regimi totalitari; abbia gli organi e i mezzi sufficienti per far eseguire nei singoli stati federali le sue deliberazioni dirette a mantenere un ordine comune, pur lasciando agli stati stessi l’autonomia che consenta una plastica articolazione e lo sviluppo di una vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli.
Se ci sarà nei principali paesi europei un numero sufficiente di uomini che comprenderanno ciò, la vittoria sarà in breve nelle loro mani, poiché la situazione e gli animi saranno favorevoli alla loro opera. Essi avranno di fronte partiti e tendenze già tutti squalificati dalla disastrosa esperienza dell’ultimo ventennio. Poiché sarà l’ora di opere nuove, sarà anche l’ora di uomini nuovi: del MOVIMENTO PER L’EUROPA LIBERA ED UNITA.

III. I compiti del dopoguerra. La riforma della società

Un’Europa libera e unita è premessa necessaria del potenziamento della civiltà moderna, di cui l’era totalitaria rappresenta un arresto. La fine di questa era farà riprendere immediatamente in pieno il processo storico contro la disuguaglianza ed i privilegi sociali. Tutte le vecchie istituzioni conservatrici che ne impedivano l’attuazione saranno crollate o crollanti; e questa loro crisi dovrà essere sfruttata con coraggio e decisione.
La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l’emancipazione delle classi lavoratrici e la realizzazione per esse di condizioni più umane di vita. La bussola di orientamento per i provvedimenti da prendere in tale direzione non può essere però il principio puramente dottrinario secondo il quale la proprietà privata dei mezzi materiali di produzione deve essere in linea di principio abolita e tollerata solo in linea provvisoria, quando non se ne possa proprio fare a meno. La statizzazione generale dell’economia è stata la prima forma utopistica in cui le classi operaie si sono rappresentate la loro liberazione dal giogo capitalista; ma, una volta realizzata in pieno, non porta allo scopo sognato, bensì alla costituzione di un regime in cui tutta la popolazione è asservita alla ristretta classe dei burocrati gestori dell’economia.
Il principio veramente fondamentale del socialismo, e di cui quello della collettivizzazione generale non è stato che una affrettata ed erronea deduzione, è quello secondo il quale le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma – come avviene per le forze naturali – essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne sieno vittime. Le gigantesche forze di progresso che scaturiscono dall’interesse individuale, non vanno spente nella morta gora della pratica routinière per trovarsi poi di fronte all’insolubile problema di resuscitare lo spirito d’iniziativa con le differenziazioni nei salari, e con gli altri provvedimenti del genere; quelle forze vanno invece esaltate ed estese offrendo loro una maggiore opportunità di sviluppo e di impiego, e contemporaneamente vanno consolidati e perfezionati gli argini che le convogliano verso gli obbiettivi di maggiore vantaggio per tutta la collettività.
La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio. Questa direttiva si inserisce naturalmente nel processo di formazione di una vita economica europea liberata dagli incubi del militarismo o del burocratismo nazionale. La soluzione razionale deve prendere il posto di quella irrazionale, anche nella coscienza dei lavoratori. Volendo indicare in modo più particolareggiato il contenuto di questa direttiva, ed avvertendo che la convenienza e le modalità di ogni punto programmatico dovranno essere sempre giudicate in rapporto al presupposto ormai indispensabile dell’unità europea, mettiamo in rilievo i seguenti punti:
a) Non si possono più lasciare ai privati le imprese che, svolgendo un’attività necessariamente monopolistica, sono in condizioni di sfruttare la massa dei consumatori; ad esempio le industrie elettriche, le imprese che si vogliono mantenere in vita per ragioni di interesse collettivo ma che, per reggersi, hanno bisogno di dazi protettivi, sussidi, ordinazioni di favore ecc. (l’esempio più notevole di questo tipo d’industria sono finora in Italia le siderurgiche); e le imprese che per la grandezza dei capitali investiti e il numero degli operai occupati, o per l’importanza del settore che dominano, possono ricattare gli organi dello stato, imponendo la politica per loro più vantaggiosa (Es.: industrie minerarie, grandi istituti bancari, grandi armamenti). È questo il campo in cui si dovrà procedere senz’altro a nazionalizzazioni su scala vastissima, senza alcun riguardo per i diritti acquisiti.
b) Le caratteristiche che hanno avuto in passato il diritto di proprietà e il diritto di successione, hanno permesso di accumulare nelle mani di pochi privilegiati ricchezze che converrà distribuire durante una crisi rivoluzionaria in senso egualitario, per eliminare i ceti parassitari e per dare ai lavoratori gli strumenti di produzione di cui abbisognano, onde migliorare le condizioni economiche e far loro raggiungere una maggiore indipendenza di vita. Pensiamo cioè ad una riforma agraria che, passando la terra a chi la coltiva, aumenti enormemente il numero dei proprietari, e ad una riforma industriale che estenda la proprietà dei lavoratori nei settori non statizzati, con le gestioni cooperative, l’azionariato operaio ecc.
c) I giovani vanno assistiti con le provvidenze necessarie per ridurre al minimo le distanze fra le posizioni di partenza nella lotta per la vita. In particolare la scuola pubblica dovrà dare le possibilità effettive di proseguire gli studi fino ai gradi superiori ai più idonei, invece che ai più ricchi; e dovrà preparare in ogni branca di studi, per l’avviamento ai diversi mestieri e alle diverse attività liberali e scientifiche, un numero di individui corrispondente alla domanda del mercato, in modo che le rimunerazioni medie risultino poi press’a poco eguali per tutte le categorie professionali, qualunque possano essere le divergenze fra le rimunerazioni nell’interno di ciascuna categoria, a seconda delle diverse capacità individuali.
d) La potenzialità quasi senza limiti della produzione in massa dei generi di prima necessità, con la tecnica moderna, permette ormai di assicurare a tutti, con un costo sociale relativamente piccolo, il vitto, l’alloggio e il vestiario, col minimo di conforto necessario per conservare il senso della dignità umana. La solidarietà umana verso coloro che riescono soccombenti nella lotta economica, non dovrà, per ciò, manifestarsi con le forme caritative sempre avvilenti e produttrici degli stessi mali alle cui conseguenze cercano di riparare, ma con una serie di provvidenze che garantiscano incondizionatamente a tutti, possano o non possano lavorare, un tenore di vita decente, senza ridurre lo stimolo al lavoro e al risparmio. Così nessuno sarà più costretto dalla miseria ad accettare contratti di lavoro iugulatori.
e) La liberazione delle classi lavoratrici può aver luogo solo realizzando le condizioni accennate nei punti precedenti: non lasciandole ricadere in balìa della politica economica dei sindacati monopolistici, che trasportano semplicemente nel campo operaio i metodi sopraffattori caratteristici anzitutto del grande capitale. I lavoratori debbono tornare ad essere liberi di scegliere i fiduciari per trattare collettivamente le condizioni cui intendono prestare la loro opera, e lo stato dovrà dare i mezzi giuridici per garantire l’osservanza dei patti conclusivi; ma tutte le tendenze monopolistiche potranno essere efficacemente combattute, una volta che sieno realizzate quelle trasformazioni sociali.
Questi sono i cambiamenti necessari per creare intorno al nuovo ordine un larghissimo strato di cittadini interessati al suo mantenimento, e per dare alla vita politica una consolidata impronta di libertà, impregnata di un forte senso di solidarietà sociale. Su queste basi, le libertà politiche potranno veramente avere un contenuto concreto, e non solo formale, per tutti, in quanto la massa dei cittadini avrà una indipendenza ed una conoscenza sufficiente per esercitare un continuo ed efficace controllo sulla classe governante.
Sugli istituti costituzionali sarebbe superfluo soffermarsi, poiché, non potendosi prevedere le condizioni in cui dovranno sorgere ed operare, non faremmo che ripetere quel che tutti già sanno sulla necessità di organi rappresentativi, sulla formazione delle leggi, sull’indipendenza della magistratura che prenderà il posto dell’attuale per l’applicazione imparziale delle leggi emanate, sulla libertà di stampa e di associazione per illuminare l’opinione pubblica e dare a tutti i cittadini la possibilità di partecipare effettivamente alla vita dello stato. Su due sole questioni è necessario precisare meglio le idee, per la loro particolare importanza in questo momento nel nostro paese: sui rapporti dello stato con la chiesa e sul carattere della rappresentanza politica:
a) Il concordato con cui in Italia il Vaticano ha concluso l’alleanza col fascismo andrà senz’altro abolito per affermare il carattere puramente laico dello stato, e per fissare in modo inequivocabile la supremazia dello stato sulla vita civile. Tutte le credenze religiose dovranno essere egualmente rispettate, ma lo stato non dovrà più avere un bilancio dei culti.
b) La baracca di cartapesta che il fascismo ha costituito con l’ordinamento corporativo cadrà in frantumi insieme alle altre parti dello stato totalitario. C’è chi ritiene che da questi rottami si potrà domani trarre il materiale per il nuovo ordine costituzionale. Noi non lo crediamo. Negli stati totalitari, le camere corporative sono la beffa che corona il controllo poliziesco sui lavoratori. Se anche però le camere corporative fossero la sincera espressione delle diverse categorie dei produttori, gli organi di rappresentanza delle diverse categorie professionali non potrebbero mai essere qualificati per trattare questioni di politica generale, e nelle questioni più propriamente economiche diverrebbero organi di sopraffazione delle categorie sindacalmente più potenti. Ai sindacati spetteranno ampie funzioni di collaborazione con gli organi statali incaricati di risolvere i problemi che più direttamente li riguardano, ma è senz’altro da escludere che ad essi vada affidata alcuna funzione legislativa, poiché risulterebbe un’anarchia feudale nella vita economica, concludentesi in un rinnovato dispotismo politico. Molti che si sono lasciati prendere ingenuamente dal mito del corporativismo, potranno e dovranno essere attratti all’opera di rinnovamento; ma occorrerà che si rendano conto di quanto assurda sia la soluzione da loro confusamente sognata. Il corporativismo non può avere vita concreta che nella forma assunta dagli stati totalitari, per irreggimentare i lavoratori sotto funzionari che ne controllino ogni mossa nell’interesse della classe governante.
Il partito rivoluzionario non può essere dilettantescamente improvvisato nel momento decisivo, ma deve sin da ora cominciare a formarsi almeno nel suo atteggiamento politico centrale, nei suoi quadri generali e nelle prime direttive d’azione. Esso non deve rappresentare una massa eterogenea di tendenze, riunite solo negativamente e transitoriamente, cioè per il loro passato antifascista e nella semplice attesa della caduta del regime totalitario, pronte a disperdersi ciascuna per la sua strada, una volta raggiunta quella meta. Il partito rivoluzionario sa invece che solo allora comincerà veramente la sua opera; e deve perciò essere costituito da uomini che si trovino d’accordo sui principali problemi del futuro.
Deve penetrare con la sua propaganda metodica ovunque vi sieno degli oppressi dell’attuale regime, e, prendendo come punto di partenza il problema volta a volta sentito come più doloroso dalle singole persone e classi, mostrare come esso si connette con altri problemi, e quale possa esserne la vera soluzione. Ma dalla sfera via via crescente dei suoi simpatizzanti deve attingere e reclutare nell’organizzazione del movimento solo coloro che hanno fatto della rivoluzione europea lo scopo principale della loro vita; che disciplinatamente realizzino giorno per giorno il necessario lavoro, provvedano oculatamente alla sicurezza continua ed efficace di esso, anche nelle situazioni di più dura illegalità, e costituiscano così la solida rete che dà consistenza alla più labile sfera dei simpatizzanti. Pur non trascurando nessuna occasione e nessun campo per seminare la sua parola, esso deve rivolgere la sua operosità in primissimo luogo a quegli ambienti che sono più importanti come centro di diffusione di idee e come centro di reclutamento di uomini combattivi; anzitutto verso i due gruppi sociali più sensibili nella situazione odierna, e decisivi in quella di domani; vale a dire la classe operaia e i ceti intellettuali. La prima è quella che meno si è sottomessa alla ferula totalitaria, e che sarà la più pronta a riorganizzare le proprie file. Gli intellettuali, particolarmente i più giovani, sono quelli che si sentono spiritualmente più soffocare e disgustare dal regnante dispotismo. Man mano altri ceti saranno inevitabilmente attratti nel movimento generale.
Qualsiasi movimento che fallisca nel compito di alleanza di queste forze, è condannato alla sterilità; poiché, se movimento di soli intellettuali, sarà privo della forza di massa necessaria per travolgere le resistenze reazionarie, sarà diffidente e diffidato rispetto alla classe operaia; ed anche se animato da sentimenti democratici, proclive a scivolare, di fronte alle difficoltà, sul terreno della mobilitazione di tutte le altre classi contro gli operai, cioè verso una restaurazione fascista. Se poggerà solo sul proletariato, sarà privo di quella chiarezza di pensiero che non può venire che dagli intellettuali, e che è necessaria per ben distinguere i nuovi compiti e le nuove vie: rimarrà prigioniero del vecchio classismo, vedrà nemici da per tutto, e sdrucciolerà sulla dottrinaria soluzione comunista.
Durante la crisi rivoluzionaria, spetta a questo movimento organizzare e dirigere le forze progressiste, utilizzando tutti quegli organi popolari che si formano spontaneamente come crogioli ardenti in cui vanno a mischiarsi le masse rivoluzionarie, non per emettere plebisciti, ma in attesa di essere guidate. Esso attinge la visione e la sicurezza di quel che va fatto non da una preventiva consacrazione da parte dell’ancora inesistente volontà popolare, ma dalla coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società moderna. Dà in tal modo le prime direttive del nuovo ordine, la prima disciplina sociale alle informi masse. Attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo stato, e intorno ad esso la nuova vera democrazia.
Non è da temere che un tale regime rivoluzionario debba necessariamente sboccare in un rinnovato dispotismo. Vi sbocca se è venuto modellando un tipo di società servile. Ma se il partito rivoluzionario andrà creando con polso fermo, fin dai primissimi passi, le condizioni per una vita libera, in cui tutti i cittadini possano partecipare veramente alla vita dello stato, la sua evoluzione sarà, anche se attraverso eventuali secondarie crisi politiche, nel senso di una progressiva comprensione ed accettazione da parte di tutti del nuovo ordine, e perciò nel senso di una crescente possibilità di funzionamento, di istituzioni politiche libere. Oggi è il momento in cui bisogna saper gettare via vecchi fardelli divenuti ingombranti, tenersi pronti al nuovo che sopraggiunge, così diverso da tutto quello che si era immaginato, scartare gli inetti fra i vecchi e suscitare nuove energie fra i giovani. Oggi si cercano e si incontrano, cominciando a tessere la trama del futuro, coloro che hanno scorto i motivi dell’attuale crisi della civiltà europea, e che perciò raccolgono l’eredità di tutti i movimenti di elevazione dell’umanità, naufragati per incomprensione del fine da raggiungere o dei mezzi come raggiungerlo.
La via da percorrere non è facile, né sicura. Ma deve essere percorsa, e lo sarà!
Altiero Spinelli – Ernesto Rossi

 

La leçon du Manifeste de Ventotene dans la culture européenne française

Les célébrations du centenaire de la naissance de ce grand précurseur qu’a été Altiero Spinelli offrent l’occasion de mesurer le chemin parcouru par la cause européenne depuis le Manifeste de Ventotene et la fin de la guerre. L’existence actuelle de l’Union européenne et de tout un appareil institutionnel qui administre et coordonne les activités d’une bonne partie de notre continent confirme l’ampleur et la lucidité des perspectives théorisées par Spinelli. Les éloges qui lui sont adressés présentent souvent ce dernier comme un grand visionnaire. C’est là une bonne définition si l’on entend par ce terme la capacité de concevoir au-delà de l’existant les horizons d’un état futur de la société. Mais il ne faut pas considérer «le mot “visionnaire”» comme synonyme d’«utopiste». Le diagnostic de Spinelli à propos des responsabilités des États-nations dans l’éclatement de la seconde guerre mondiale pouvait être tenu pour parfaitement fondé. À plus forte raison, le dépassement des nationalismes constituait une prémisse indispensable de la paix au sein du vieux continent. Certes, la construction européenne d’aujourd’hui ne coïncide pas avec l’État fédéral auquel Spinelli songeait; mais les raisons de ce décalage tiennent à plusieurs facteurs historiques, souvent imprévisibles à l’époque. Même aujourd’hui, la globalisation et la persistance tenace d’intérêts nationaux et locaux posent des problèmes que l’on ne saurait sous-estimer.
Cette perspective unitaire de l’Europe a ses antécédents dans un passé culturel et politique qui concerne entre autres un pays qui est au centre même du continent, à savoir la France. Sans remonter plus loin, il faudrait rappeler à quel point celle qu’on appela la République des lettres au XVIIe siècle traçait l’idéal d’une communauté internationale d’hommes sages et cultivés, capables de faire avancer la connaissance par leur collaboration. Le père idéal de cette conception, dont témoignent les correspondances érudites et scientifiques du XVIIe et du XVIIIe, était bien Descartes, tandis que Pierre Bayle sut imprimer à ce réseau d’échanges un potentiel de divulgation et de développement grâce à son journal «Nouvelles de la République des lettres». S’il s’agissait là (de tout façon) des dialogues d’une lumières au XVIIIe siècle étendait les pouvoirs de la réflexion intellectuelle et morale à des horizons bien plus vastes et à des possibilités d’application pratique et politique beaucoup plus immédiates. On sait quel a été le rôle des Rousseau, des Voltaire, des Montesquieu, des Diderot…
Si le XIXe siècle, en tant qu’apogée des revendications nationales, a démenti ces attitudes (mais le 17 juillet 1851 son discours à l’Assemblée législative, lors du débat sur la révision de la Constitution, Victor Hugo préconisait «cet immense édifice de l’avenir, qui s’appellera un jour les États Unis d’Europe»), il est sûr que le XXe siècle, à cause des tragédies qui l’ont traversé, a dû reproposer la problématique européenne à plusieurs niveaux: sur le plan culturel, des écrivains comme Paul Valéry et Jules Romains, auteur d’un magnifique poème «Europe» au lendemain de la première guerre mondiale et d’essais spécifiques sur le même sujet, ont réfléchi sur les perspectives de notre continent. Au lendemain des ravages de la seconde guerre mondiale, “Éducation européenne” de Romain Gary lançait un appel, au-delà de toute rancune, à la fraternité humaine et culturelle des peuples d’Europe.
On sait que dans le domaine politique l’itinéraire de Spinelli a rencontré la France à plusieurs reprises. En 1944 ce fut grâce à l’appui de Jean- Marie Soutou, représentant de la France libre, que le CFFE (Comité Français pour la Fédération Européenne) donna son adhésion à l’institution d’une fédération européenne. En avril 1944, lors d’une réunion internationale très importante organisée à Paris, à laquelle participèrent Vincent Auriol, André Philip, Henri Frenay, Albert Camus, où Spinelli et d’autres fondèrent le Comité International pour la Fédération européenne.
Pour de multiples raisons, la suite n’a pas été linéaire, comme l’on sait. En 1954, à la grande déception de Spinelli, le projet d’une Communauté européenne de défense (CED) fut rejeté par le Parlement français. Tout récemment, Valéry Giscard d’Estaing a dirigé l’élaboration d’un Traité constitutionnel, qui n’a été ratifié ni par la France ni par la Hollande. Mais des hommes politiques français ont participé de façon décisive aux différentes étapes de la construction européenne: Robert Schumann, qui participa en 1950 à la création de la CECA, Jean Monnet, préconisateur lui aussi de la CECA et fondateur en 1955 du Comité d’action pour les États-Unis d’Europe, Simone Veil, premier président du Parlement européen élu directement par les citoyens, Jacques Delors, président de la Commission exécutive de la Communauté européenne de 1985 à 1995, décennie capitale pour l’élargissement et le renforcement de l’intégration.
L’élaboration d’une convention constitutionnelle plus agile, ayant débouché sur le traité de Lisbonne, a permis de surmonter l’impasse rencontrée par le projet précédent. Il est légitime de souhaiter que les processus historiques en cours, dans un monde aussi complexe que celui d’aujourd’hui, aillent dans la direction d’une unification de plus en plus substantielle.

Préface
d’Eugenio Colorni (Rome 1944)

Les présents écrits ont été élaborés et rédigés sur l’île de Ventotene, au cours des années 1941-1942. C’est dans ce climat d’exception, à travers les mailles d’une rigoureuse discipline, par le canal d’une information que l’on tentait au moyen de mille ruses de rendre la plus complète possible, que quelques esprits – partagés entre un sentiment de tristesse dû à l’inertie forcée et l’attente impatiente d’une prochaine libération – mûrissaient une nouvelle réflexion sur l’ensemble des problématiques qui avaient été à l’origine aussi bien de l’action menée que du comportement adopté dans la lutte.
L’éloignement de la vie politique concrète offrait l’occasion d’un regard plus détaché, de même qu’il invitait à revoir les positions traditionnelles en s’interrogeant sur les échecs passés, dont les raisons étaient moins à rechercher dans les erreurs d’ordre technique de stratégie parlementaire ou révolutionnaire, ou encore dans l’“immaturité” globale de la situation, que dans les maladresses de l’organisation générale et dans la lutte engagée selon les lignes de rupture habituelles sans tenir suffisamment compte des nouvelles modalités qui étaient en train de transformer la réalité.
Pour s’apprêter à combattre efficacement la grande bataille qui s’annonçait dans un avenir fort proche, il fallait non seule ment corriger les erreurs du passé, mais encore reformuler les termes des diverses problématiques politiques, en ayant l’esprit libre de tout préjugé doctrinal et de toute mythologie de parti.
C’est ainsi que, dans l’esprit de quelques-uns, a fait son chemin l’idée que la contradiction fondamentale, à l’origine des crises, des guerres et des injustices qui affligent notre société, tient à l’existence d’États souverains, géographiquement, économiquement et militairement affermis, qui considèrent les autres États comme des rivaux ou de potentiels ennemis et qui instaurent les uns par rapport aux autres des relations de perpetuo bellum omnium contra omnes. Certes, l’idée n’était nullement inédite en soi. Mais, dans le contexte et les circonstances où elle voyait le jour, elle prenait une allure de nouveauté. À cela, plusieurs raisons:
1) Tout d’abord, la solution internationaliste, commune aux programmes de tous les partis politiques progressistes, est considérée dans une certaine mesure par ces mêmes partis comme la conséquence obligée et quasi automatique de la réalisation des objectifs que chacun d’eux s’est fixés. Les démocrates estiment que la mise en place, dans chaque pays, du régime qu’ils préconisent, favoriserait sûrement la naissance d’une conscience unitaire qui, tout en permettant d’abolir les frontières culturelles et mentales, devrait être le préambule indispensable d’après eux à une libre union entre les peuples, y compris dans les domaines politique et économique. Les socialistes, quant à eux, pensent que l’instauration, dans les différents États, de régimes fondés sur une didacture du prolétariat conduirait de par leur nature à un État collectiviste international.
Or, une analyse du concept moderne d’État, tenant compte de l’ensemble des intérêts et des sentiments nationaux, montre clairement que les analogies entre les régimes, susceptibles de faciliter des rapports d’amitié et de collaboration entre les États, ne sont pas une garantie d’unification automatique, quand bien même progressive, tant que perdureront des intérêts et des sentiments collectifs liés au maintien d’une unité circonscrite à l’intérieur des frontières nationales. L’histoire nous a appris que des sentiments chauvinistes et des intérêts protectionnistes peuvent amener deux démocraties à l’antagonisme et au conflit. De même, rien n’oblige un État socialiste riche à accepter de mettre en commun ses propres ressources avec un autre État socialiste beaucoup plus pauvre, pour le simple fait que tous deux sont régis par des systèmes politiques analogues.
L’abolition des frontières politiques et économiques entre les États ne ressortit donc pas nécessairement à l’instauration, dans tous les États à la fois, d’un même régime donné. C’est en réalité un problème à part qui demande à être affronté selon les modalités qui lui sont propres. Certes, on ne peut pas être des socialistes authentiques sans être dans le même temps internationalistes. Mais on l’est en vertu d’un lien idéologique, plus que par nécessité politique et économique, si bien que la victoire socialiste dans chaque État n’aboutit pas forcément à un État international.
2) Ensuite, ce qui amenait à renforcer de manière autonome la thèse fédéraliste était le fait que les partis politiques existants, liés à un passé de luttes engagées à un niveau national, sont habitués, par coutume et par tradition, à poser toutes les problématiques en partant du présupposé implicite qu’est l’existence de l’État national et à considérer les problématiques relatives à une organisation internationale comme des questions de «politique étrangère» qu’il convient de résoudre par la voie diplomatique et par le biais d’accords entre les divers gouvernements. Cette attitude est à la fois la cause et la conséquence de l’attitude évoquée plus haut, selon laquelle on considère qu’après avoir pris les rênes du pouvoir, l’accord et l’union entre régimes ayant des affinités sont naturels, sans que soit nécessaire un combat politique expressément engagé dans ce but. Dans l’esprit des auteurs des textes ici rassemblés, s’est au contraire profondément ancrée la conviction que la question d’un système international ne peut devenir la question centrale de notre époque historique et être tenue pour un préliminaire obligé dans la résolution de tous les problèmes institutionnels, économiques et sociaux qui s’imposent à notre société, qu’à l’inéluctable condition de prendre en compte tous les aspects qu’impliquent les divergences politiques internes et les choix de chaque parti, y compris au plan des tactiques et des stratégies adoptées dans la lutte quotidienne. Toutes les problématiques, qu’il s’agisse de libertés constitutionnelles, de lutte des classes, de planification, de prise du pouvoir et d’exercice du pouvoir, bénéficient d’un éclairage nouveau si elles sont examinées en partant du principe que l’objectif prioritaire est la réalisation d’un système unitaire international. Les stratégies politiques, le fait de soutenir telle ou telle autre force en jeu et d’intensifier tel ou tel autre mot d’ordre, revêt des aspects bien différents selon que le but envisagé est la prise du pouvoir et la mise en place de réformes dans chacun des États nationaux ou la création des conditions économiques, politiques et morales fondamentales en vue d’instaurer un système fédéral qui puisse intéresser l’ensemble du continent.
3) La dernière raison – et sans doute la plus importante – dépend du fait que l’idéal d’une fédération européenne, en tant que prélude à une fédération mondiale, pouvant paraître encore une lointaine utopie il y a quelques années de cela, se présente aujourd’hui, à la fin de la guerre, comme un but réalisable, presque à portée de la main. Le total bouleversement que ce conflit a provoqué pour les populations de tous les pays soumis à l’occupation allemande, la nécessité de reconstruire sur de nouvelles bases une économie détruite dans sa presque totalité et de remettre à l’ordre du jour la question des frontières politiques, des barrières douanières, des minorités ethniques, etc., la singularité de cette guerre où l’élément national a été si souvent exas péré par la composante idéologique, où on a vu des États plus petits renoncer en grande partie à leur souveraineté au profit des États les plus forts et où les fascistes ont remplacé le concept d’«espace vital» par celui d’«indépendance nationale»: tous ces éléments rendent plus que jamais actuel, dans l’après-guerre, le problème de l’organisation d’un fédéralisme européen.
Pour des raisons tant économiques qu’idéologiques, le fédéralisme pourra intéresser des forces issues de toutes les classes sociales. On s’en approchera aussi bien par la voie diplomatique que par des manifestations populaires, en promouvant d’une part au sein des classes cultivées une réflexion sur les problèmes relatifs au fédéralisme et, de l’autre, en provoquant une conjoncture révolutionnaire qui, une fois établie, rendra impossible tout retour en arrière; en cherchant d’une part à influencer les classes dirigeantes des États victorieux et, de l’autre, en agitant dans les pays vaincus le mot d’ordre proclamant que seule une Europe libre et unie peut leur assurer le salut et leur éviter les dramatiques conséquences de la défaite.
Notre Mouvement est né de ces exigences. La prééminence et l’antériorité de ce problème par rapport à tous ceux qui s’imposent en cette époque que nous nous apprêtons à vivre, la certitude que, si nous laissons la situation se figer dans les vieux moules nationalistes, l’occasion sera perdue pour toujours et que ni la paix ni aucun bonheur durable ne seront possibles pour notre continent, nous ont poussé à vouloir créer une orga nisation autonome, chargée de promouvoir l’idée d’une Fédération Européenne en tant qu’objectif réalisable dans l’immédiat après-guerre.
Nous n’ignorons pas les difficultés d’un tel projet, ainsi que la puissance des forces qui opèrent en sens contraire. Mais c’est aussi la première fois que ce problème est selon nous placé à l’ordre du jour de la lutte politique, non pas comme un lointain idéal, mais comme un besoin tragique et urgent.
Notre Mouvement, qui vit désormais depuis près de deux ans dans une clandestinité rendue extrêmement difficile par l’oppression fasciste et nazie, dont les membres proviennent des rangs de l’antifascisme et sont tous engagés dans la lutte armée pour la liberté, et qui a déjà payé son lourd tribut de prisonniers pour la cause commune, n’est pas et ne veut pas être un parti politique. Comme il l’a toujours plus nettement démontré, notre mouvement veut agir sur les différents partis politiques et au sein de chacun d’eux, non seulement pour en accentuer la composante internationaliste, mais aussi et surtout pour que tous les problèmes de la vie politique soient appréhendés à partir de ce nouveau point de vue auxquels ils ont été si peu habitués jusqu’à présent.
Nous ne sommes pas un parti politique car, même si nous avons soin de promouvoir la réflexion sur l’organisation institutionnelle, économique et sociale de la Fédération Européenne et que nous prenons part activement à la lutte pour sa réalisation, notamment en essayant d’identifier les forces qui pourront agir en sa faveur dans la future conjoncture politique, nous ne voulons pas nous prononcer officiellement sur des questions d’ordre institutionnel, sur le degré plus ou moins élevé de collectivisation économique ou de décentralisation administrative, etc. qui devront caractériser le futur système fédéral. Nous préférons que ces problèmes soient amplement et librement débattus au sein de notre mouvement et que toutes les tendances politiques, de l’aile communiste à l’aile libérale, y soient représentées. De fait, nos adhérents militent presque tous dans un des partis politiques progressistes et tous s’accordent pour promouvoir les principes qu’ils considèrent comme les principes élémentaires d’une Fédération Européenne libre, fondée sur aucune hégémonie ni sur aucun régime totalitaire et dotée de structures suffisamment solides pour ne pas être réduite à une simple Société des Nations. Ces principes peuvent se résumer par les points suivants: armée fédérale commune, unité monétaire, abolition des barrières douanières et des restrictions à la circulation des individus ressortissants des États membres de la Fédération, représentation directe des citoyens aux assemblées fédérales, politique étrangère commune.
Au cours de ses deux années d’existence, notre Mouvement s’est largement étendu aux groupes et aux partis politiques antifascistes. Parmi eux, certains nous ont publiquement exprimé leur adhésion et sympathie. D’autres ont sollicité notre collaboration à l’établissement de leurs programmes. Et il n’est pas prétentieux de dire que si les problèmes de la Fédération Européenne sont si souvent traités dans la presse clandestine, le mérite nous en revient en partie. Notre journal «L’Unità Europea» suit avec attention les événements de politique intérieure et internationale et prend position sur ces questions avec une totale indépendance de jugement.
Les présents écrits, fruit des idées qui ont donné naissance à notre Mouvement, n’expriment toutefois que les points de vue de leurs auteurs. Ils ne constituent donc en aucune manière une prise de position du Mouvement lui-même. Ils veulent offrir des sujets de discussion à tous ceux qui veulent entamer une nouvelle réflexion sur l’ensemble des problèmes liés à la vie politique internationale, en tenant compte des expériences idéologiques et politiques les plus récentes, des tout derniers résultats fournis par les experts économiques, des perspectives pour l’avenir les plus sensées et les plus raisonnables, qui seront bientôt complétés par d’autres études ou analyses. Notre souhait est que ces réflexions puissent susciter une effervescence d’idées et apporter, en ce climat embrasé par l’urgence de l’action, les éclairages nécessaires pour que notre action soit toujours plus déterminée, consciente et responsable.
Le Mouvement italien pour la fédération européenne
Rome, le 22 janvier 1944

 

Pour une Europe libre et unie. Projet d’un Manifeste
Ventotene, 1941
Altiero Spinelli, Ernesto Rossi

I. La Crise de la Civilisation Moderne

La civilisation moderne a choisi comme fondement le principe de la liberté, en vertu duquel l’homme ne doit pas être pour autrui un simple instrument mais une entité de vie autonome. Eu égard à ce code, un processus historique grandiose s’est mis en place à tous les niveaux de la vie sociale qui ne s’y conformaient pas.
1) On a affirmé, pour toutes les nations, le droit à se constituer en États indépendants. Tout peuple, avec ses caractéristiques ethniques, géographiques, linguistiques et historiques propres, devait pouvoir trouver dans l’organisme de l’État dûment créé, suivant sa propre conception de la vie politique, un instrument apte à satisfaire au mieux ses exigences, en toute indépendance, sans aucune intervention étrangère. L’idéologie de l’indépendance nationale a été un puissant levain de progrès: elle a permis de dépasser les chauvinismes mesquins pour ouvrir à une plus vaste solidarité contre l’oppression des dominateurs étrangers; elle a levé bon nombre d’obstacles qui empêchaient la circulation des individus et des marchandises; à l’intérieur des frontières de chaque nouvel État, elle a étendu les institutions et les systèmes d’organisation des pays les plus avancés à ceux qui l’étaient le moins. Mais telle idéologie portait en son sein les germes de l’impérialisme capitaliste que notre génération a vu se développer jusqu’à former des États totalitaires et déchaîner des guerres mondiales.
La nation n’est plus considérée à présent comme le produit historique de la cohabitation entre individus qui, parvenus au terme d’un long processus à une plus grande unité de moeurs et d’aspirations, trouvent dans l’État la forme la plus efficace d’organisation de leur vie collective au sein de la société. La nation est devenue au contraire une entité divine, un organisme qui ne doit penser qu’à son existence et à son développement, sans se soucier le moins du monde des dommages que pourraient en subir les autres. La souveraineté absolue a conduit les États nationaux à accroître leur volonté de domination, chacun se sentant menacé par la puissance des autres et considérant comme son «espace vital» des territoires de plus en plus vastes, susceptibles de lui permettre de se mouvoir librement et de lui garantir ses propres moyens de subsistance sans dépendre d’autrui. Dans ces circonstances, seule l’hégémonie de l’État le plus fort sur tous les autres États qui lui seraient asservis pourrait enrayer cette volonté de domination.
Ainsi, de garant de la liberté des citoyens, l’État s’est-il transformé en maître à l’égard de sujets qu’il tient à son service et sur lesquels il exerce toutes les facultés étant en son pouvoir pour porter au maximum leur efficacité guerrière. Même durant les périodes de paix – considérées comme des pauses nécessaires pour préparer d’autres guerres inévitables –, la volonté des milieux militaires prédomine désormais dans de nombreux pays sur celle des civils et rend de plus en plus difficile un fonctionnement libre des organisations politiques. L’école, les secteurs scientifiques, les systèmes de production, l’administration doivent principalement contribuer à renforcer le potentiel de guerre. Les femmes sont considérées comme des mères à soldats; aussi sont-elles récompensées selon les critères que l’on applique dans les foires aux bêtes les plus prolifiques. Les enfants sont éduqués, depuis leur plus jeune âge, au métier des armes et à la haine de l’étranger. Les libertés individuelles sont réduites à néant, dès lors que tous sont militarisés et continuellement appelés sous les drapeaux. Les guerres à répétition obligent à quitter famille et emploi, à abandonner ses biens et à sacrifier sa vie pour des objectifs dont nul ne comprend vraiment l’importance. Et voici détruit, en quelques jours, le fruit de plusieurs années d’efforts et de sacrifices, accomplis pour le bien-être de la communauté.
Les États totalitaires sont ceux qui ont réalisé l’unification de toutes les forces avec le plus de cohérence, au moyen d’une extrême centralisation et autarcie. C’est pourquoi ils se présentent comme les organismes les mieux adaptés à l’actuel contexte international. Il suffit qu’une nation avance d’un pas vers un totalitarisme plus accentué pour qu’elle en entraîne d’autres dans son sillon, mûes par un même instinct de survie.
2) On a affirmé, pour tous les citoyens, le droit à participer à l’expression de la volonté de l’État, celle-ci devant représenter, dans leur mobilité, la synthèse des exigences économiques et idéologiques librement manifestées par les diverses catégories sociales. Telle organisation politique a permis de corriger, du moins d’atténuer, bon nombre d’injustices les plus criantes, léguées par les régimes précédents. Par ailleurs, les libertés de presse et d’association, ainsi que l’extension progressive du suffrage électoral, rendaient de plus en plus difficile le maintien des anciens privilèges dans ce nouveau système représentatif.
Les plus démunis apprenaient peu à peu à se servir de ces instruments pour donner l’assaut aux droits acquis par les classes aisées. Les impôts sociaux sur les rentes et les successions, les taux d’imposition progressifs sur les grandes fortunes, l’exemption des revenus les plus bas et des biens de première nécessité, la gratuité de l’école publique, l’augmentation des dépenses en matière de prévention et de sécurité sociales, les réformes agraires, le contrôle de la production dans les usines, menaçaient les classes privilégiées dans leurs citadelles les plus retranchées.
Même les classes privilégiées qui avaient consenti à l’égalité des droits politiques ne pouvaient admettre que les classes les plus pauvres y aient recours pour tenter de réaliser une égalité de fait qui aurait concrètement donné à ces mêmes droits une valeur de liberté effective. À la fin de la première guerre mondiale, lorsque la menace se fit trop pressante, c’est naturellement que ces classes privilégiées avaient applaudi et appuyé avec vigueur l’instauration des dictatures qui retiraient des mains de leurs adversaires des armes légales d’opposition.
De plus, la création de gigantesques groupes industriels et bancaires, ainsi que la création de syndicats réunissant autour d’une unique direction des cohortes entières de travailleurs – chacun faisant pression sur le gouvernement pour obtenir une politique plus conforme à leurs intérêts particuliers – menaçait de faire éclater l’État lui-même en de multiples fiefs économiques qu’une lutte exacerbée auraient opposés. Le système démocratico-libéral, étant devenu pour ces groupes l’instrument pour mieux exploiter l’ensemble de la communauté, perdait toujours plus de son prestige. Et ainsi, prenait pied la conviction que seul l’État totalitaire aurait pu parvenir, en abolissant les libertés populaires, à résoudre en quelque sorte les conflits d’intérêt que les institutions politiques existantes n’arrivaient plus à contenir. De fait, les régimes totalitaires ont ensuite bloqué la position des diverses catégories sociales là où elles étaient parvenues et ont entravé toute voie légale susceptible de modifier par la suite la situation en vigueur, d’une part en exerçant un contrôle policier sur la vie de tous les citoyens et, de l’autre, en éliminant violemment toute forme d’opposition. C’est ainsi qu’a été garantie l’existence absolument parasitaire d’une classe de propriétaires terriens absents et de rentiers qui contribuent à la production nationale uniquement en détachant les coupons de dividendes de leurs titres, de même qu’ont été garanties l’existence de classes monopolistes et de sociétés en chaîne qui exploitent les consommateurs et rendent volatile l’argent des petits épargnants, et l’existence de ploutocrates qui dans les coulisses tirent les ficelles de la politique et dirigent la machine de l’État à leur seul profit, sous prétexte de répondre aux intérêts supérieurs de la nation. C’est ainsi également que sont entretenues d’une part les fortunes colossales d’un petit nom bre et de l’autre la misère des masses qui se voient exclues de la possibilité de jouir des fruits de la civilisation moderne. Enfin, c’est ainsi qu’a été sauvegardé un régime économique où les ressources matérielles et les forces de travail, qui devraient être employées à satisfaire les besoins fondamentaux des énergies vitales humaines, visent au contraire à satisfaire les désirs les plus futiles de ceux qui ont les moyens de payer les prix les plus élevés, un régime économique également où le droit de succession perpétue au sein d’une même classe la puissance de l’argent, la transformant ainsi en un privilège qui ne correspond en rien à la valeur sociale attribuée aux services réellement prêtés et où la marge des possibilités matérielles du prolétariat est si réduite que pour vivre les travailleurs sont contraints souvent à se laisser exploiter par ceux qui leur offrent un travail, quel qu’il soit.
En vue d’immobiliser et de soumettre les classes ouvrières, les syndicats se sont transformés, d’organismes de lutte indépendants qu’ils étaient, dirigés par des individus qui jouissaient de la confiance de leurs adhérents, en des organes de surveillance policière placés sous la direction d’employés choisis par le groupe dirigeant, auquel ils doivent rendre compte. Si le régime économique en question subit quelques modifications, celles-ci seront toujours et uniquement dictées par les exigences du militarisme, qui se confondent avec les aspirations réactionnaires des classes privilégiées soucieuses de créer et de consolider les États totalitaires.
3) On a affirmé la valeur permanente de l’esprit critique contre le dogmatisme autoritaire. Tout ce qui était déclaré, devait avoir sa raison d’être ou disparaître. C’est à cette démarche méthodique et dénuée de tout préjugé que notre société doit dans tous les domaines ses principales conquêtes. Mais cette liberté de l’esprit n’a pas su résister à la crise qui a généré les États totalitaires. De nouveaux dogmes, adoptés par conviction ou par hypocrisie, font autorité dans toutes les sciences.
Bien que nul ne sache définir ce qu’est une race – les connaissances historiques les plus élémentaires démontrent d’ailleurs l’absurdité d’une telle notion –, on exige des philosophes qu’ils pensent, prouvent et convainquent que l’on appartient à une race élue, uniquement parce que l’impérialisme a besoin de ce mythe pour exalter auprès des masses les sentiments de haine et d’orgueil. Les concepts économiques les plus évidents sont frappés d’anathème et ce, pour présenter la politique autarcique, les échanges équilibrés et les autres vieux instruments du mercantilisme comme d’extraordinaires découvertes de l’époque actuelle. Du fait de l’interdépendance économique entre les diverses régions du monde, l’espace vital pour un peuple, désireux de maintenir un niveau de vie en accord avec la civilisation moderne, est la planète entière. Aussi at- on inventé une pseudoscience: la géopolitique qui entend démontrer le bien-fondé théorique de l’espace vital et par là donner une assise théorique à la volonté de domination qui caractérise l’impérialisme. L’histoire est falsifiée dans ses données essentielles pour servir les intérêts de la classe au pouvoir. Les bibliothèques et les librairies sont épurées de tous les ouvrages jugés non orthodoxes. De nouveau, les ténèbres de l’obscurantisme menacent de juguler l’esprit humain. La morale sociale de la liberté et de l’égalité est elle-même battue en brèche. Les individus ne sont plus considérés comme des citoyens libres pour lesquels l’État est l’organisme servant à réaliser les objectifs de la communauté. Ils sont au contraire les serviteurs d’un État qui leur fixe leurs propres objectifs. La volonté de l’État devient ainsi la volonté de ceux qui détiennent le pouvoir. Les individus ne sont plus des citoyens de droit mais, soumis à une hiérarchie, ils sont tenus d’obéir sans mot dire aux autorités supérieures que chapeaute un chef dûment divinisé. Le régime des castes, plein d’arrogance, renaît de ses cendres.
Après avoir triomphé dans divers pays, cette culture réactionnaire et totalitaire a pour finir trouvé dans l’Allemagne nazie le terreau fertile pour parvenir à ses conséquences extrêmes. Grâce à une méticuleuse préparation, profitant impudemment et sans scrupules des rivalités, des égoïsmes et de la naïveté des autres nations, entraînant dans son sillage d’autres États européens vassaux – l’Italie en tête – et s’alliant avec le Japon, l’Allemagne s’est lancée dans une vaste entreprise de domination. Sa victoire signifierait une consolidation définitive du totalitarisme dans le monde. Toutes ses caractéristiques s’en trouveraient exaspérées au plus haut point et les forces progressistes seraient pendant longtemps condamnées à une simple opposition, nulle en soi.
L’intransigeance et la traditionnelle arrogance des milieux militaires allemands peuvent déjà nous donner un aperçu du caractère de leur domination à l’issue d’une guerre victorieuse. Les Allemands victorieux pourraient même se permettre un semblant de générosité envers les autres peuples européens, feindre de respecter leurs territoires et leurs institutions politiques et ainsi gouverner en satisfaisant un stupide sentiment patriotique qui tient compte de la couleur des barrières aux frontières ou de la nationalité des hommes politiques qui occupent le devant de la scène et non du rapport entre les forces en jeu et de la valeur effective des organismes étatiques. Quand bien même dissimulée, la réalité serait toujours la même: une nouvelle division de l’humanité entre Spartiates et Hilotes. Même l’hypothèse d’un compromis entre les factions antagonistes se traduirait encore par une ultérieure avancée du totalitarisme puisque les pays ayant pu se soustraire à l’emprise de l’Allemagne seraient eux-mêmes contraints d’adopter les mêmes formes d’organisation politique pour se préparer efficacement à une nouvelle guerre.
Mais si l’Allemagne hitlérienne est parvenue d’une part à abattre un à un les États plus petits, elle a obligé ce faisant les États plus puissants à entrer en lice. L’opposition courageuse de la Grande Bretagne – y compris dans les moments les plus difficiles où elle a dû, seule, tenir tête à l’ennemi – a fait que les Allemands se sont heurtés à la rude résistance de l’armée soviétique, ce qui a donné le temps aux Américains de mobiliser leurs ressources de production illimitées. Et, par ailleurs, la lutte contre l’impérialisme allemand s’est étroitement associée à celle que le peuple chinois avait engagée de son côté contre l’impérialisme japonais.
Quantité d’individus et de richesses ont été dressés contre les puissances totalitaires dont les forces ont atteint leur apogée et ne peuvent désormais que progressivement se consumer. Les forces adverses ont au contraire surmonté leur plus bas niveau de dépression et connaissent à présent une remontée.
La guerre entreprise par les Alliés éveille toujours plus chaque jour un désir de libération, y compris dans les pays qui s’étaient pliés à la violence de l’attaquant et que le choc subi avaient ébranlés, y compris même parmi les populations des puissances de l’Axe qui ont conscience de s’être laissées entraîner dans une situation désespérée, dans le seul but d’assousir la soif de domination de ceux qui les gouvernent.
Le lent processus qui a conduit quantité d’hommes à se laisser passivement modeler par le nouveau régime, à s’y conformer et ainsi à le renforcer, a été endigué. On assiste même au processus contraire. Une vague immense lentement se soulève: elle se compose de toutes les forces progressistes, des groupes les plus éclairés de la classe ouvrière que la peur et le mirage de mille illusions n’ont pas détournés de leur aspiration à une forme de vie meilleure, des intellectuels qui sont les plus conscients de l’avilissement auquel est soumise l’intelligence, des entrepreneurs qui se sentant capables de nouvelles initiatives voudraient se libérer du pesant harnais de la machine bureaucratique ainsi que des autarcies nationales qui entravent toute possibilité d’action, de tous ceux enfin qui ont un sens inné de la dignité et refusent de plier l’échine bien qu’humiliés et asservis.
C’est à toutes ces forces qu’est confiée aujourd’hui l’avenir de notre civilisation.

II. Les Enjeux de l’après-guerre. L’Unité Européenne

Mais la défaite de l’Allemagne n’implique pas automatiquement une réorganisation de l’Europe suivant notre idéal de civilisation. Durant l’intense – quoique brève – période de crise générale (où les États seront à genoux, où les masses populaires attendront impatientes un discours nouveau et seront comme de la matière en fusion, ardente et prête à être coulée dans l’empreinte de formes nouvelles, susceptibles d’accueillir la conduite d’hommes réellement internationalistes), les classes les plus privilégiées dans les anciens systèmes nationaux pourront tenter, sournoisement ou par la violence, d’infléchir l’élan de sentiments et de passions internationalistes et s’emploieront ostensiblement à reconstruire les anciens organismes de l’État. Il est par ailleurs probable que des dirigeants britanniques – de concert même avec les dirigeants américains – tenteront de faire avancer les choses en ce sens, afin de restaurer une politique d’équilibre des pouvoirs qui assure de toute évidence l’intérêt immédiat de leurs empires.
Les forces conservatrices, à savoir les dirigeants des principales institutions des États nationaux, mais aussi les cadres supérieurs des forces armées au faîte de la hiérarchie dans les monarchies encore existantes, les groupes du capitalisme monopoliste qui ont lié leurs profits au sort des États, les grands propriétaires fonciers et les hiérarchies supérieures de l’Église dont seule une rigoureuse société conservatrice peut garantir les revenus parasitaires, et à leur suite la multitude innombrable de ceux qui dépendent d’eux ou qui sont aveuglés par leur traditionnelle puissance: toutes ces forces réactionnaires ont aujourd’hui le sentiment que l’édifice est fissuré de toutes parts et qu’il faut le sauver. Son effondrement les priverait soudain de toutes les garanties dont elles ont joui jusqu’à présent et les exposerait à l’assaut des forces progressistes.
La situation révolutionnaire: anciennes et nouvelles orientations
La chute des régimes totalitaires sera ressentie par bien des peuples comme l’avènement de la «liberté». Tout frein aura été levé. Les libertés de parole et d’association règneront alors automatiquement et largement. Ce sera le triomphe des tendances démocratiques. Celles-ci ont de multiples nuances qui vont d’un libéralisme conservateur au socialisme ou à l’anarchie. Elles croient en une «génération spontanée» des événements et des institutions, en la totale bonne foi des impulsions venues du bas. Elles ne veulent pas forcer la main à l’«histoire», au «peuple», au «prolétariat» ou à tout autre nom donné à leur dieu. Elles souhaitent la fin de toute dictature, synonyme d’une restitution au peuple de ses droits imprescriptibles à l’autodétermination. Le couronnement de leurs rêves serait une assemblée constituante élue au suffrage le plus large possible et dans le strict respect du droit des électeurs, qui déciderait de la Constitution à adopter. Si les citoyens ne sont pas mûrs encore, le risque est sans doute de proposer une mauvaise Constitution, mais ce n’est qu’à travers un constant travail de persuasion que l’on pourra la corriger.
Les démocrates n’excluent pas, par pur principe, l’usage de la violence. Mais ils y auront recours uniquement lorsque la majorité sera convaincue qu’elle est indispensable, uniquement donc lorsqu’elle ne sera pas plus qu’un point superflu à mettre sur un «i». Ainsi les démocrates sont-ils des dirigeants faits pour gouverner en des périodes d’administration ordinaire où les citoyens sont dans l’ensemble persuadés du bien-fondé de leurs principales institutions qui ne demanderont à être modifiées que dans des aspects relativement secondaires. Au cours de périodes révolutionnaires où les institutions ne sont pas à administrer mais à créer, la pratique démocratique fait manifestement faillite. Les révolutions russe, allemande et espagnole offrent trois des plus récents témoignages de la désolante impuissance des démocrates. Dans chacun de ces pays, après la chute du vieil appareil étatique et de son système législatif et administratif, on a vu aussitôt se multiplier, sous le couvert d’une légalité renouvelée, quantité d’assemblées et de représentations populaires où convergent et s’agitent toutes les forces sociales progressistes. Certes la population a des besoins fondamentaux à satisfaire mais elle ne sait avec précision ce qu’elle veut ni ce qu’elle doit faire. Mille cloches résonnent à ses oreilles. Avec ses millions de têtes, elles ne parvient pas à s’orienter et elle se divise en quantité de tendances antagonistes.
Au moment où il faudrait faire preuve d’une détermination et d’un courage extrêmes, les démocrates se sentent perdus, n’ayant pour les soutenir qu’un ensemble de passions désordonnées et non un consensus populaire spontané. Ils croient que leur tâche est de créer ce consensus: aussi ont-ils des allures de prédicateurs qui exhortent les populations, plutôt que d’être des chefs ou des guides qui sachent où les mener. Ils laissent passer les occasions qui se présentent à eux de consolider le nouveau régime et préfèrent au contraire tenter de faire immédiatement fonctionner des institutions qui non seulement supposent une longue préparation mais sont mieux adaptées à des périodes de relative tranquillité politique. Ils offrent ainsi à leurs adversaires les armes qu’ils useront ensuite contre eux. Ils représentent en somme, par leurs mille tendances, non pas une volonté de renouvellement, mais au contraire les confuses velléités qui règnent dans tous les esprits et qui préparent, tout en se paralysant mutuellement, un terrain propice au développement de la réaction. Le processus politique démocratique ne sera plus qu’un poids mort au coeur même de la crise révolutionnaire.
À mesure que les démocrates auront épuisé en logomachies leur popularité initiale de partisans de la liberté, faute d’une sérieuse politique révolutionnaire, on verra immanquablement se recomposer les institutions politiques pré-totalitaires et la lutte se redéploiera suivant les anciens schémas de l’affrontement entre classes.
Le principe en vertu duquel la lutte des classes est le dénominateur commun de tous les problèmes a constitué entre autres l’orientation fondamentale des ouvriers d’usines et a servi à donner corps à leur politique, aussi longtemps que n’étaient pas remises en cause les institutions fondamentales. Mais ce même principe devient un instrument d’isolement du prolétariat lorsque s’impose l’exigence de transformer l’organisation de la société dans sa totalité. Les ouvriers, du fait de leur éducation fondée sur la lutte des classes, ne savent voir que leurs revendications particulières de classe, ou de catégorie, sans se soucier de les relier aux intérêts des autres catégories de la société. Ou encore aspirent-ils à une dictature unilatérale de leur classe afin de réaliser la collectivisation utopique de tous les instruments matériels de production qu’une propagande centenaire a indiquée comme le remède absolu contre tous les maux. Telle politique n’a prise sur aucune autre catégorie, hormis celle des ouvriers qui privent ainsi les autres forces progressistes de leur soutien, voire les abandonnent à la merci de la réaction qui habilement les manipule de façon à briser l’échine du mouvement prolétarien lui-même.
En regard des diverses tendances prolétariennes, partisanes d’une politique de classe et d’un idéal collectiviste, les communistes ont admis la difficulté d’obtenir le soutien d’un nombre suffisant de forces pour assurer la victoire. Aussi, à la différence des autres partis, se sont-ils transformés en un mouvement rigoureusement discipliné qui organise les ouvriers en usant du mythe russe, sans soumettre sa ligne de conduite à leurs revendications mais en se servant d’eux au contraire pour les manoeuvres les plus disparates.
Une telle attitude rend, dans les périodes de crise révolutionnaire, les communistes plus efficaces que les démocrates. Cependant, parce qu’ils s’efforcent de maintenir la distinction entre les classes ouvrières et les autres forces révolutionnaires – notamment en prêchant que la «véritable» révolution doit encore avoir lieu – ils constituent dans les moments décisifs un élément sectaire qui affaiblit l’ensemble. Qui plus est, leur allégeance totale à l’État russe – lequel s’en est d’ailleurs systématiquement servi pour atteindre les objectifs de sa politique nationale – les empêche de mener une politique ayant un tant soit peu de continuité. Ils ont constamment besoin de se dissimuler derrière un Karoly, un Blum ou un Negrin pour ne courir ensuite qu’à leur perte, à l’instar des pantins démocratiques dont ils se sont inspirés. Car le pouvoir ne se conquiert, ni ne se garde par la ruse uniquement, mais grâce à la capacité de répondre de manière vitale et concrète aux besoins de la société moderne.
Si demain la lutte devait se limiter au seul domaine national traditionnel, il serait bien difficile alors d’échapper aux anciennes apories. De fait, les États nationaux ont déjà profondément planifié leurs économies respectives, au point que la question centrale se résoudrait bien vite à savoir quel groupe d’intérêts, voire quelle classe, tient les commandes de la planification. Le front des forces progressistes se briserait alors sans difficulté dans le conflit qui oppose les diverses classes et catégories économiques. Selon toute probabilité, les réactionnaires en tireraient le meilleur profit.
Un véritable mouvement révolutionnaire ne peut provenir que des rangs de ceux qui se sont montrés capables de critiquer les vieilles théories politiques. Il devra en outre être capable de collaborer avec les forces démocratiques, avec les forces communistes et, plus généralement, avec celles qui voudront coopérer à la désagrégation du totalitarisme, sans toutefois se laisser séduire par telle ou telle autre ligne politique.
Les forces réactionnaires disposent d’hommes et de cadres habiles, formés au commandement, qui se battront avec acharnement pour conserver leur suprématie. En ce moment grave, elles sauront se présenter bien camouflées et proclameront vouloir défendre la liberté, la paix, le bien-être général, ainsi que l’intérêt des classes les plus pauvres. Dans le passé, nous avons déjà pu observer leur capacité à se placer dans le sillage des mouvements populaires qu’elles ont ensuite paralysés et déviés de leurs objectifs pour les convertir enfin en leur exact contraire. Elles constitueront sans nul doute la force la plus dangereuse qu’il nous faudra affronter.
Le moyen dont elles se serviront comme d’un levier sera la restauration de l’État national. Elles pourront ainsi exploiter un sentiment populaire fort répandu, qui plus est humilié par les récents événements et aisément utilisable à des fins réactionnaires: le sentiment patriotique. De la sorte, elles peuvent même espérer créer une certaine confusion dans l’esprit de leurs adversaires. Les masses populaires n’ont pas d’autre expérience politique que celle qu’elles ont acquise dans un contexte national; il est donc facile de les conduire, de même que leurs chefs les plus myopes, sur le terrain de la reconstruction des États que la tempête a abattus.
Si elles atteignaient cet objectif, la réaction l’emporterait. Ces États pourraient même en apparence être des États largement démocratiques ou socialistes: le retour des réactionnaires au pouvoir ne serait qu’une question de temps. On verrait alors resurgir les jalousies nationales et chaque État confierait de nouveau, à la seule force des armes, la satisfaction de ses exigences. L’ambition prioritaire serait une fois encore, à plus ou moins court terme, celle de transformer les peuples en armées. Les généraux recommenceraient à commander, les monopolistes à profiter des autarcies, les corps bureaucratiques à grossir, les prêtres à rendre les masses dociles. Toutes les conquêtes des premiers temps se réduiraient à néant devant la nécessité de devoir à nouveau se préparer pour la guerre. Le problème urgent à résoudre, sous peine de rendre illusoire tout autre progrès, est l’abolition définitive de la division de l’Europe en États nationaux souverains. L’effondrement de la plupart des États du continent sous le rouleau compresseur allemand a déjà unifié le destin des peuples européens qui se trouvent face à deux options: se soumettre à la domination hitlérienne ou, après la défaite de celle-ci, s’engager tous ensemble dans une crise révolutionnaire où ils ne seront plus figés et séparés en de rigides structures étatiques. Les esprits sont aujourd’hui bien mieux disposés que dans le passé à l’égard d’une réorganisation fédérale de l’Europe. La rude expérience de ces dernières décennies a ouvert les yeux même de ceux qui refusaient de voir et a produit bon nombre de circonstances favorables pour notre idéal.
Tous les hommes de bon sens reconnaissent désormais qu’on ne peut maintenir un équilibre entre des États européens indépendants au sein desquels l’Allemagne militariste jouirait des mêmes conditions que les autres pays, ni morceler l’Allemagne et lui tenir la bride haute une fois vaincue. La preuve en est qu’aucun pays en Europe ne peut rester en marge tandis que les autres se battent, les déclarations de neutralité et de pactes de non agression n’ayant aucune valeur. On a pu démontrer l’inutilité, voire le caractère nuisible, d’organismes comme la Société des Nations qui prétendait garantir un droit international sans l’appui d’une force militaire pour imposer ses décisions et faire respecter dans le même temps la souveraineté absolue des États membres. Tout aussi absurde s’est révélé le principe de non intervention en vertu duquel tout peuple est libre de se doter du gouvernement despotique de son choix, comme si la constitution interne de chaque État n’était pas d’un intérêt vital pour tous les autres pays européens. Les nombreux problèmes qui empoisonnent la vie internationale du continent sont demeurés sans solution (le tracé des frontières dans les régions à population mixte, la défense des minorités allogènes, les débouchés maritimes des pays n’en disposant pas, la question des Balkans, la question irlandaise, etc). La Fédération Européenne pourrait offrir une solution des plus simples à ces problèmes, sur le modèle d’une plus vaste unité nationale au moyen de laquelle un certain nombre de petits États avaient déjà cherché, par le passé, à résoudre des problèmes analogues qui, ainsi, perdaient de leur acuité en devenant des problèmes de relations entre les diverses provinces d’une même nation. En outre, la fin du sentiment de sécurité que la Grande Bretagne tirait de sa position inattaquable – qui la poussait à affecter sa «splendid isolation» –, la dissolution de la République française et celle de son armée à la première offensive sérieuse des forces allemandes (un résultat – il faut l’espérer – qui aura fortement émoussé la conviction chauviniste d’une véritable supériorité française) et, en particulier, la conscience de la gravité du danger encouru par un asservissement général, telles sont globalement les circonstances qui favoriseront la constitution d’un régime fédéral susceptible de mettre fin à l’anarchie actuelle. Par ailleurs, le fait que l’Angleterre a désormais accepté le principe de l’indépendance indienne et que la France a potentiellement perdu, par l’acceptation de sa défaite, tout son empire, permet également de trouver plus aisément les bases d’un accord pour un aménagement européen des «possessions coloniales».
Enfin, à cela s’ajoutent la disparition de quelques-unes des principales dynasties et la fragilité des fondements qui soutiennent les dynasties ayant subsisté. Il convient effectivement de tenir compte du fait que les dynasties, considérant les divers pays comme leur apanage traditionnel, représentaient, en raison des puissants intérêts qu’elles défendaient, un obstacle sérieux à une organisation rationnelle des États Unis d’Europe, lesquels ne peuvent se fonder que sur une constitution républicaine de tous les pays fédérés. Et lorsque, franchissant l’horizon du Vieux Continent, on tente d’embrasser par une vision d’ensemble tous les peuples qui composent l’humanité, il faut pourtant bien reconnaître que la Fédération Européenne est l’unique garantie envisageable pour que les relations avec les peuples d’Asie et d’Amérique puissent se nouer sur la base d’une coopération pacifique, avant que ne soit possible, dans un avenir plus lointain, l’unité politique de la planète entière.
Aussi la ligne de partage entre partis progressistes et partis réactionnaires ne se trace-t-elle plus d’après la ligne formelle de la démocratie ou du socialisme plus ou moins avancés qu’il faut instaurer, mais d’après la toute nouvelle – et par ailleurs essentielle – ligne de faîte qui sépare ceux qui conçoivent la lutte selon sa finalité fondamentale traditionnelle, à savoir la conquête du pouvoir politique national (faisant ainsi, quand bien même involontairement, le jeu des forces réactionnaires en laissant se solidifier dans l’ancien moule la lave incandescente des passions populaires et en permettant que resurgissent les incohérences du passé), de ceux qui envisagent la création d’un État international stable comme le principal enjeu, si bien qu’ils chercheront à canaliser vers ce but les forces populaires et qu’ils se serviront du pouvoir national, après l’avoir conquis, en priorité comme d’un instrument pour réaliser l’unité internationale. C’est par le biais de la propagande et de l’action, c’est en cherchant à établir par tous les moyens possibles des accords et des liens entre les divers mouvements qui se forment certainement dans chaque pays, qu’il faut dès à présent jeter les bases d’un mouvement capable de mobiliser toutes les forces pour donner naissance à une nouvelle organisation qui sera l’idée la plus grandiose et la plus novatrice que l’Europe ait connue depuis des siècles. Et ce, plus largement, en vue de constituer un État fédéral stable qui dispose, au lieu des armées nationales, d’une force armée européenne qui ait les structures et les moyens suffisants pour faire appliquer dans les divers États fédérés des directives qui veilleront au maintien d’un ordre communautaire, tout en garantissant aux États eux-mêmes l’autonomie nécessaire pour permettre une articulation et un déroulement souples de la vie politique, conformément aux caractéristiques de chacune des nations.
S’il se trouve, dans les principaux pays, assez d’hommes pour comprendre cela, la victoire sera bientôt entre leurs mains, car les circonstances et les esprits sont non seulement favorables à leur projet, mais ils ont aussi face à eux des partis et des mouvements déjà discrédités par l’expérience désastreuse de ces vingt dernières années. L’heure étant venue d’accomplir des actions nouvelles, l’heure viendra aussi d’accueillir des hommes nouveaux et d’accueillir le MOUVEMENT POUR UNE EUROPE LIBRE ET UNIE.

III. Les Enjeux de l’Après-guerre. La Réforme de la Societé

Une Europe libre et unie est le préambule nécessaire à une consolidation de la civilisation moderne. La fin de l’ère totalitaire, qui en a marqué le coup d’arrêt, permettra de reprendre totalement et immédiatement le processus historique engagé contre les inégalités et les privilèges sociaux. Toutes les anciennes institutions conservatrices qui entravaient sa réalisation auront été anéanties ou seront sur le point de l’être. Il faudra exploiter cette situation de crise avec courage et détermination.
Si elle veut répondre à nos exigences, la révolution européenne sera socialiste ou ne sera pas. Autrement dit, elle devra proposer l’émancipation des classes ouvrières ainsi que l’obtention pour celles-ci de conditions de vie plus humaines. Toutefois, la ligne d’orientation à suivre pour prendre des mesures en ce sens ne saurait s’appuyer sur un principe purement doctrinal, suivant lequel la propriété privée des moyens matériels de production doit être en théorie abolie mais tolérée provisoirement lorsqu’elle apparaît inévitable. L’étatisation générale de l’économie a été la première forme d’utopie qui avait laissé croire aux classes ouvrières en une libération possible du joug capitaliste. Mais quand bien même elle serait totalement instituée, elle ne conduirait pas au but rêvé mais bien à la constitution d’un régime où l’ensemble de la population serait asservie à la classe restreinte des bureaucrates gérant l’économie.
Le véritable principe fondamental du socialisme – et pour lequel le principe de la collectivisation générale n’a été qu’une déduction hâtive et erronée – est le principe selon lequel les forces économiques ne doivent pas prendre le pas sur les individus mais – comme c’est le cas pour les forces naturelles – leur être soumises, se laisser guider et contrôler par eux, le plus rationnellement possible, afin que les masses ne soient plus leurs victimes. Il faut éviter que les gigantesques forces de progrès, sublimant les intérêts individuels, ne s’enlisent dans les eaux stagnantes de la pratique routinière et ne se retrouvent ensuite confronter à l’insoluble problème de devoir ressusciter l’esprit d’initiative, moyennant des salaires différenciés ou toute autre mesure de ce genre. Il faut au contraire que ces forces soient encouragées, qu’on leur offre la possibilité de s’accroître et de s’engager davantage. Et, dans le même temps, il faut renforcer et perfectionner les digues qui les canalisent et les orientent vers les objectifs qui présentent les meilleurs avantages pour l’ensemble de la collectivité.
La propriété privée doit être abolie, limitée, corrigée, voire élargie cas par cas, et non par pur principe dogmatique. Cette directive s’inscrit naturellement dans le processus visant à la formation d’une réalité économique européenne qui serait affranchie des cauchemars du militarisme ou d’un bureaucratisme national. Une résolution rationnelle des problèmes devra s’imposer sur toute résolution irréfléchie, y compris dans la conscience des travailleurs. Pour illustrer de façon précise le contenu de cette directive et, puisque l’intérêt et les modalités de chaque point programmatique devront toujours être évalués en fonction du présupposé désormais indispensable qu’est l’unité européenne, nous souhaiterions mettre en relief les points suivants:
a) On ne peut plus laisser entre les mains des privés les entreprises qui, de par leur activité essentiellement monopoliste, sont en état d’exploiter la masse des consommateurs. Ce sont, par exemple, les industries électriques, mais aussi toutes les entreprises que l’on veut maintenir en vie pour des raisons d’intérêt collectif mais qui ont besoin pour survivre de droits protecteurs, de subventions ou de commandes de faveur, etc. (à cet égard, l’industrie sidérurgique en Italie est aujourd’hui l’exemple le plus remarquable), ou encore toutes les entreprises qui, par le volume des capitaux investis, par le nombre d’ouvriers qu’elles emploient ou par l’importance du secteur où elles opèrent, peuvent faire pression sur les organes de l’État et imposer une politique qui est à leur avantage (c’est le cas des industries minières, des grands groupes bancaires, des principales sociétés d’armement). C’est là un domaine où il faudra sans nul doute procéder à des nationalisations sur une vaste échelle, sans se soucier des droits acquis.
b) Les caractéristiques qui ont réglementé, dans le passé, le droit de propriété et le droit de succession, ont favorisé entre les mains de quelques privilégiés l’accumulation de richesses qu’il faudra redistribuer de manière égalitaire, au cours d’une période de crise révolutionnaire. Ceci permettra d’éliminer les groupes parasitaires et de donner aux travailleurs les moyens de production dont ils ont besoin, dans la perspective également d’améliorer leurs conditions de vie et de leur assurer des moyens de subsistance plus autonomes. C’est pourquoi nous avons projeté à la fois une réforme agraire qui donnera la terre à ceux qui la cultivent et augmentera ainsi considérablement le nombre de propriétaires et une réforme industrielle qui étendra l’accès à la propriété parmi les travailleurs des secteurs non étatisés, au moyen de gestions coopératives, d’un actionnariat ouvrier, etc.
c) Il faut prévoir d’aider les jeunes par des dispositions aptes à réduire le plus possible les inégalités de départ, au seuil de la lutte qu’est l’existence. En particulier, l’école publique devra offrir aux meilleurs élèves – et non aux plus riches seulement – les moyens réels de poursuivre des études jusqu’aux niveaux supérieurs et elle devra préparer, dans toutes les filières et pour faciliter l’accès aux diverses professions et activités libérales ou scientifiques, un nombre d’individus en mesure de répondre à la demande du marché, de sorte que les salaires moyens puissent être maintenus à un niveau plus ou moins égal, quelles que soient les catégories professionnelles ou les différences de rémunération au sein de chacune d’elle, établies selon les diverses compétences individuelles.
d) Désormais, grâce aux technologies modernes, le potentiel quasi illimité de la production massive de produits de première nécessité permet de garantir à tous, à des coûts sociaux relativements maîtrisés, la nourriture, le logement et l’habillement, ainsi que le confort minimum pour garantir le sentiment de la dignité humaine. La solidarité humaine envers ceux qui succombent dans la lutte économique ne devra donc plus se traduire par des formes de charité en soi humiliantes et par surcroît génératrices de ces mêmes maux auxquelles elles prétendent remédier, mais au contraire par une série de mesures d’assistance qui garantissent à tous – qu’ils soient en mesure ou non de travailler – un niveau de vie digne, sans pour autant réduire la motivation au travail et à l’épargne. Ainsi la misère n’obligera-t-elle plus personne à accepter des contrats de travail astreignants.
e) La libération des classes laborieuses ne se fera qu’en mettant en place les conditions évoquées aux points précédents, autrement dit en évitant que ces mêmes classes ne soient de nouveau à la merci de la politique économique des syndicats monopolistes qui se bornent à appliquer, au sein du monde ouvrier, les logiques d’exploitation typiques avant tout du grand capital. Les travailleurs doivent être libres par contre de choisir leurs représentants qui négocieront les conditions collectives auxquelles ils accepteront de prêter leurs services. Et l’État devra prédisposer les moyens juridiques nécessaires pour que soient respectés les accords conclus. Mais, toutes les tendances monopolistes ne pourront être efficacement combattues que lorsque ces transformations sociales auront été réalisées.
Tous ces changements sont nécessaires si l’on veut recueillir, autour de ce nouvel ordre, un large consensus de la part des citoyens et donner à la vie politique un caractère de liberté consolidée, empreinte également d’un sens profond de solidarité sociale. Les libertés politiques, elles-mêmes fondées sur ces principes, pourront avoir aux yeux de tous un contenu concret – et non de pure forme uniquement – car l’ensemble des citoyens jouira d’une indépendance et de connaissances suffisantes pour exercer un contrôle efficace et permanent de la classe dirigeante.
Il nous paraît superflu de nous étendre sur le sujet des institutions constitutionnelles, faute de pouvoir prévoir les conditions où elles verront le jour et où elles opèreront. Nous ne ferions que répéter ce que tout le monde sait déjà sur le besoin d’organismes représentatifs, sur la promulgation des lois, sur l’indépendance de la magistrature qui viendra remplacer la magistrature actuelle et sera chargée de l’application impartiale des lois, sur les libertés de presse et d’association indispensables pour informer l’opinion publique et donner à tous les citoyens la possibilité de participer réellement à la vie de la nation. Ceci étant dit, deux questions méritent néanmoins d’être approfondies, ne serait-ce qu’en raison de leur singulière importance en ce moment pour notre pays: il s’agit des rapports entre l’Église et l’État d’une part et, de l’autre, du caractère de la représentation politique :
a) Le concordat par lequel le Vatican a conclu en Italie une alliance avec le fascisme devra évidemment être aboli pour affirmer le caractère purement laïc de l’État et établir sans équivoque la suprématie de l’État dans la vie de la nation. Toutes les confessions religieuses devront être respectées sans distinction aucune, mais l’État n’aura plus à prévoir un budget pour les cultes.
b) La baraque de papier mâché que le fascisme a bâtie à travers une organisation corporatiste s’effondrera, en même temps que s’effondreront tous les autres pans de l’État totalitaire. Certains considèrent qu’on pourra, de ces débris, tirer les matériaux nécessaires à la construction d’un nouvel ordre constitutionnel. Quant à nous, nous ne le croyons pas. Dans les États totalitaires, les chambres corporatistes ne sont que la énième mascarade parachevant le contrôle policier exercé sur les travailleurs. Quand bien même les chambres corporatistes seraient l’expression sincère des diverses catégories de producteurs, les organes représentatifs des diverses catégories professionnelles ne pourraient pas avoir les compétences suffisantes en matière de politique générale et, dans le cadre de questions plus précisément économiques, elles deviendraient des organismes autoritaires au service des catégories les plus puissantes au plan syndical. Certes, les syndicats auront d’amples fonctions de collaboration avec les organes de l’État chargés de résoudre les problèmes qui les concernent plus directement, mais il est absolument exclu qu’il leur soit confiée une quelconque fonction législative. Ce serait donner libre cours, au sein de la vie économique du pays, à une anarchie féodale qui aboutirait à un nouveau despotisme politique. Nombre de ceux qui se sont laissés ingénument séduire par le mythe corporatiste devront à présent nécessairement être séduits par ce processus de renouvellement. Mais encore faudra-t-il qu’ils se rendent compte de l’absurdité de la solution dont ils avaient confusément rêvé. Le corporatisme ne peut réellement exister que dans la forme que lui attribue les États totalitaires pour enrégimenter les travailleurs sous les ordres de fonctionnaires chargés de contrôler leurs moindres mouvements, et ce dans l’intérêt de la classe dirigeante.
On ne peut concevoir qu’au moment décisif le parti révolutionnaire soit improvisé, telle l’oeuvre de dilettantes. Il doit au contraire, dès à présent, commencer à définir pour le moins une ligne politique centrale avec ses structures générales et ses directives d’action essentielles. Il ne saurait en aucun cas représenter une masse de tendances hétérogènes, rassemblées de manière transitoire et stérile, uniquement pour leur passé antifasciste, attendant toutes la chute du régime totalitaire et prêtes ensuite à se disperser, chacune dans sa propre direction, une fois le but atteint. Le parti révolutionnaire sait bien au contraire que c’est à ce moment-là que commencera véritablement pour lui son action. Aussi devra-t-il se composer d’hommes capables de converger sur les principaux problèmes de l’avenir.
Au moyen d’une propagande méthodique, le parti révolutionnaire doit pouvoir pénétrer partout où se trouvent des victimes de l’oppression du régime actuel. Et, partant à chaque fois du problème le plus aigu pour les individus ou pour les classes, il devra chercher à montrer comment ce problème est lié à d’autres problèmes et il en indiquera la solution. De plus, il devra recruter comme organisateurs du mouvement, dans le cercle de plus en plus vaste de ses sympathisants, uniquement ceux qui ont fait de la révolution européenne le principal objectif de leur vie, ceux qui accomplissent jour après jour, avec discipline, le travail nécessaire et ceux qui veillent à en assurer la bonne marche de manière continue et avisée, même au coeur des situations d’illégalité les plus rudes, si bien qu’ils constituent un réseau consolidé, en mesure de donner une véritable stabilité au groupe plus fragile des sympathisants.
Sans négliger aucune occasion ni aucun domaine pour divulguer son message, il doit en tout premier lieu orienter son action vers les milieux les plus importants en tant que centres de diffusion des idées et de recrutement des hommes d’action. Autrement dit, principalement vers les deux groupes sociaux les plus sensibles aujourd’hui et qui seront demain les plus déterminants: la classe ouvrière et les milieux intellectuels. La classe ouvrière est celle qui a le moins pliée sous la férule totalitaire; elle sera donc la mieux disposée à réorganiser ses rangs. Quant aux intellectuels, notamment les plus jeunes, ils se sentent mentalement opprimés au plus haut point et n’éprouvent que dégoût envers le régime despotique au pouvoir. Peu à peu, d’autres catégories sociales seront inévitablement attirées dans le mouvement général actuel.
Tout mouvement qui échouerait dans l’ambition de rallier ces forces, est condamné à être stérile. S’il se limite à n’être qu’un mouvement d’intellectuels, il se privera de la force nécessaire pour vaincre les résistances réactionnaires et il aura une attitude de défiance à l’égard de la classe ouvrière qui se méfiera elle-même en retour. Et bien qu’animé de sentiments démocratiques, il sera enclin à s’engager, devant les difficultés, sur le terrain de la mobilisation de toutes les autres classes contre les ouvriers, autrement dit à s’engager dans la voie de la restauration du fascisme. S’il s’appuie au contraire sur le prolétariat, il se privera d’une clarté de réflexion qui ne peut venir que des intellectuels et qui est indispensable pour identifier de manière efficace les actions et les orientations nouvelles. Il demeurera ainsi prisonnier du vieil antagonisme de classe, il verra des ennemis partout et il s’abandonnera à la solution communiste doctrinale.
Durant la crise révolutionnaire, c’est à ce mouvement qu’il incombe d’organiser et de diriger les forces progressistes, en s’appuyant sur tous les mouvements populaires qui spontanément se forment, à l’image de creusets ardents où viennent se mêler les masses révolutionnaires, non pour exprimer un plébiscite mais dans l’attente d’être guidées. Ce mouvement puise l’intuition et la certitude de ce qu’il doit faire, non dans une consécration préalable émanant d’une volonté populaire encore inexistante, mais dans la conscience de représenter les exigences profondes de la société moderne. Ainsi pourra-t-il dicter les toutes premières directives du nouvel ordre, la toute première discipline sociale aux masses encore informes. C’est à travers la dictature du parti révolutionnaire que prendra forme le nouvel État sur duquel se fondera véritablement la nouvelle démocratie. Il n’est pas à craindre que ce régime révolutionnaire conduise obligatoirement à un nouveau despotisme. Le risque qu’il y conduise n’existe que si ce régime a modelé un type de société servile. Mais si le parti révolutionnaire est capable de créer, d’une main ferme, dès le début, les conditions pour l’avènement d’une société libre où tous les citoyens pourront réellement participer à la vie de la nation, son évolution se fera – fût-ce au prix de quelques crises secondaires – dans le sens d’une progressive compréhension et acceptation de l’ordre nouveau de la part de tous, et donc dans le sens d’un fonctionnement libre et de plus en plus efficace des institutions politiques. Le moment est venu aujourd’hui de se débarrasser des vieux fardeaux devenus encombrants, de se tenir prêts à accueillir le monde nouveau qui se présente à nous, si différent de celui que nous avions imaginé, d’écarter parmi les plus âgés ceux qui se révèlent inadaptés pour laisser la place aux plus jeunes et encourager les nouvelles énergies. C’est aujourd’hui qu’il nous faut chercher et trouver, pour tisser la toile de l’avenir, ceux qui ont su identifier les causes de la crise actuelle de la civilisation européenne et qui sont de ce fait les héritiers de tous les mouvements ayant contribué au progrès de l’humanité mais qui ont fait naufrage, faute d’avoir su comprendre quel était le but à atteindre et quels étaient les moyens pour y parvenir. Le chemin à parcourir n’est ni facile ni sûr, mais il faut le parcourir et nous le ferons!
Altiero Spinelli – Ernesto Rossi

 

Die Kraft der Utopie

Das Manifest für ein freies und vereintes Europa, das von Altiero Spinelli 1941 in Ventotene geschrieben wurde, entstand in Zusammenarbeit mit Ursula Hirschmann (die er später heiratete), Ernesto Rossi und Eugenio Colorni. Spinelli war ein sehr aktiver und „visionärer“ Politiker, er hatte keine Angst gehabt, politische Lösungen vorzuschlagen, die in jenem Moment utopisch schienen. Das Erlebnis des Krieges, der Gefangenschaft und der Verbannung brachten ihn dazu, radikale und ganz andere Lösungen als die üblichen anzubieten. Das Erlebnis des Krieges führte ihn zu der Überzeugung, dass eine neutrale Einstellung unmöglich war. Man musste unbedingt Stellung nehmen. In dem Manifest werden, mit der damaligen politischen Terminologie, die Grundprinzipien des Antifaschismus und der Demokratie verteidigt, vor allem aber der Vorschlag, eine Föderation der europäischen Staaten zu gründen, der auf eine langjährige europäistische Tradition ideell zurückgreift, jedoch neue, eigenartige und originelle Züge annimmt. Gegen die wirtschaftliche und politische Krise jener Jahre schildert Spinelli eine anspruchsvolle und weitgehende Perspektive. Man muss die Lösung der nationalen Konflikte und des wirtschaftlichen Umbaus auf Weltebene betrachten. Ein freies und vereintes Europa wird als ein logisches und konsequentes Ergebnis des Kampfes für die Demokratie bezeichnet, und zwar als Ergebnis einer Rationalisierung der politischen, gesellschaftlichen und wirtschaftlichen Bedürfnisse der neuen Zeit: Den Nationalismus überwinden durch eine Bündnisperspektive, in der das Eigentliche nicht verschwindet, sondern in einer Einheit von Verschiedem verstärkt wird.
Spinelli erkennt ganz genau die Gefahr des Lokalpatriotismus, der in der extremen Form des Nationalismus falsche Lösungen zu konkreten politischen und wirtschaftlichen Problemen jener Zeit durchsetzen wollte. Es ist Spinelli gelungen, die Entwicklung der sozialpolitischen Ereignisse vorherzusehen und schneller als seine Zeitgenossen zu bestimmen und eine konkrete Antwort zur Globalisierung als Vorschlag einer politischen und wirtschaftlichen Organisation zu formulieren, die über die alten politischen Kategorien hinausgehen könnte. Man kann die Aktualität seines Denkens ganz genau feststellen, wenn man seine Thesen mit der heutigen politischen Debatte vergleicht: Die Auseinandersetzung Globalismus/Lokalismus und die Studien über die Topographie des Fremden formulieren nämlich in neuen und moderneren Termini und mit einem ganz anderen wissenschaftlichen und methodologischen Apparat einige Intuitionen von Spinelli. Er hat sein Leben lang zunächst im italienischen Parlament der Nachkriegszeit und dann im europäischen Parlament für den Föderalismus gekämpft, kam jedoch nicht einmal dazu, sein Projekt wenigstens partiell verwirklicht zu sehen. Die Europäische Union ist heute noch nicht die im Manifest von Ventotene gewünschte politische Einheit, dennoch erweisen sich seine Vorschläge heute mehr denn je als richtig – inmitten einer wirtschaftlichen Krise, die vielleicht viel schlimmer als die von 1929 ist.
Nur eine einheitliche Politik der Länder der Europäischen Union ist in der Lage, angemessene Antworten auf die neuen geistigen und materiellen Bedürfnisse der europäischen Bevölkerung zu geben.
Ich habe Mitte der 80er Jahre Altiero Spinelli persönlich kennengelernt, als ich für „Rassegna Sindacale“, die Wochenzeitschrift der größten italienischen Gewerkschaft (CGIL) schrieb. In einem Gespräch mit ihm trafen mich die Entschlossenheit und Überzeugung, mit denen er seine Ideen äußerte, obwohl sie den meisten Zuhörern als utopisch erschienen. Die neue Zeit vorwegzunehmen bringt manchmal die Gefahr mit sich, von seinen Zeitgenossen nicht verstanden zu werden. Das war teilweise Spinellis Schicksal gewesen, auch wenn seine Figur aber im Lauf der Zeit immer mehr an Bedeutung gewann, weil seine Analysen und politischen Vorschläge sich immer geeigneter erweisen, der politischen und sozialwirtschaftlichen Entwicklung eine richtige und funktionierende Antwort zu geben.
Wir haben es vorgezogen, das Manifest neu zu übersetzen, um dem deutschen Text eine sprachliche Aktualität zu verleihen, die seiner politischen Aktualität entsprechen kann. Gewiss ist die Analyse von Spinelli teilweise mit der gesellschaftlichen und politischen vom con von 1941 verbunden, was aber in dem Manifest entscheidend ist, sind seine politischen Vorschläge für die Zukunft, und zwar jene, die damals gewagt erschienen und heute aber an der Tagesordnung liegen.
Spinelli wusste seinen utopischen Schwung mit einer konkreten politischen Praxis zu verflechten, die ihn zu dem Versuch führte, sein Projekt Stück für Stück zu verwirklichen. Im April 1986, einen Monat vor seinem Tod, behauptete er in einem Interview mit Raul Wittenberg für „Thema“, die Monatsschrift der CGIL: «Europa muss in der Lage sein, ein politisches Projekt zu entwerfen. Die Alternative liegt nicht zwischen Europa und einer Rückkehr zum Nationalismus, die nicht zustande kommen wird, weil heutzutage alles, was entscheidend ist, eine übernationale Dimension hat. Die Alternative ist: entweder sich der Nation unterwerfen, oder Europa aufzubauen. Das große Hindernis zur politischen Union besteht in der Tatsache, dass die europäische Frage in den Händen der Verwaltung liegt. Sie muss hingegen dem Repräsentativorgan der Gemeinschaft übertragen werden; deshalb müssen wir kämpfen, damit das Europaparlament bei den nächsten Wahlen (Juni 1989) ein Verfassungsmandat bekommt, um ein Projekt zu entwerfen, das dann von den verschiedenen Staaten durch ein Referendum und nicht von den Zentralverwaltungen bestätigt werden muss».
Seine Tätigkeit als Mitglied des Europaparlaments zielte nur darauf, das im Manifest Geschriebene zu verwirklichen: Selbst ein gemeinsames Verteidigungssystem der europäischen Staaten wurde von ihm als ein kleiner Schritt Angesehen, um jene politische Einheit zu erreichen, die er für entscheidend hielt, um die internationale Lage zu bewältigen. Er hat in verschiedenen Kommissionen des Europaparlaments gearbeitet und die politisch-theoretischen Grundlinien jener langjährigen Entwicklung entworfen, die dann zum Maastrichtabkommen geführt hat. Man muss ihm als Verdienst anrechnen, dass er einen festen Glauben an eine Idee gehabt hat, die damals unrealisierbar schien. Vielleicht sollte man am Beispiel von Spinelli die Kraft der Utopie entdecken und erkennen. I have a dream, sagte Martin Luther King vor vierzig Jahren. Spinelli hat niemals von „Träumen“ gesprochen, er hat konkrete politische Vorschläge formuliert, die sich nach sechzig Jahren allmählich verwirklichen.

 

Vorwort
von Eugenio Colorni (rom 1944)

Die vorliegenden Schriften wurden zwischen 1941 und 1942 auf der Insel Ventotene verfasst. Trotz all der außergewöhnlichen Umstände, trotz der Zwänge einer strengen Reglementierung und Überwachung, trotz der Trostlosigkeit in der erzwungenen Untätigkeit, aber auch in der angstvollen Hoffnung auf die baldige Befreiung, versuchte man sich mit viel List und Erfindungsgeist so umfassend wie möglich über die Außenwelt zu informieren, und die eigenen Handlungen und die im politischen Kampf eingenommenen Positionen grundsätzlich neu zu überdenken.
Die Distanz zum tatsächlichen politischen Leben erlaubte einen unabhängigeren Blick und legte die Revision der traditionellen Positionen nahe, wobei man die Gründe der vergangenen Misserfolge weniger in technischen Fehlern der parlamentarischen oder revolutionären Taktik suchte, oder darin, dass die allgemeine Lage noch nicht reif sei, sondern eher in der Unzulänglichkeit der allgemeinen Denkmuster, und darin, dass man den Kampf an den alten kontroversen Bruchstellen angesiedelt hatte, ohne das Neue, das die Realität veränderte, ausreichend zu berücksichtigen.
Während man sich darauf vorbereitete, den großen, sich für die nahe Zukunft abzeichnenden Kampf nachhaltig und mit wirksamen Mitteln zu führen, verspürte man das Bedürfnis, die Fehler der Vergangenheit nicht nur zu korrigieren, sondern die Konturen der politischen Fragen mit einem von doktrinären Vorurteilen und Parteimythen freien Geist ganz neu zu umreißen.
Auf diese Weise entstand in den Köpfen einiger Menschen die Grundüberzeugung, dass nur ein Hauptwiderspruch für die Krisen, die Kriege, die Armut und die Unterdrückung, die unsere Gesellschaft quälten, verantwortlich zu machen sei, das heißt die Existenz von geographisch, wirtschaftlich und militärisch souveränen Staaten, die die anderen Staaten als Rivalen und potenzielle Feinde betrachteten, und von denen ein jeder mit jedem in einem Zustand des „bellum omnium contra omnes“ lebte. Diese Idee war an und für sich nichts Neues, doch Bedingungen und Anlass, aus denen sie jetzt neu entstand, ließ sie in gewisser Weise zu einem Novum werden, und das hat vielfältige Ursachen:
1.) Erstens: In den Programmen aller fortschrittlichen Parteien ist die internationalistische, übernationale Lösung zu finden, die für diese Parteien in einem gewissen Sinne unumgänglich und automatisch umgesetzt wird, wenn die eigenen gesetzten politischen Ziele erreicht werden. Die Demokraten denken, dass die Einführung des von ihnen geforderten Systems in jedem Land ganz sicher zur Entstehung eines einheitlichen Bewusstseins und damit zur Überwindung der kulturellen und moralischen Grenzen führt und darüber hinaus auch die unabdingbare Voraussetzung für die freie Union der Völker auch auf politischem und wirtschaftlichem Gebiet ist. Und die Sozialisten ihrerseits meinen, dass die Einführung der Diktatur des Proletariats in den verschiedenen Staaten zu einem inter- und übernationalen Kollektivstaat führen würde.
Nun zeigt aber eine Analyse des modernen Staatsbegriffs und die Summe der damit verbundenen Interessen und Gefühle deutlich, dass freundschaftliche Beziehungen und zwischenstaatliche Zusammenarbeit trotz aller Analogien im internen Staatsaufbau keineswegs zwangsläufig und progressiv zur Einigung führen, solange noch kollektive Interessen und Gefühle existieren, die von dem Staat als einer von Grenzen umschlossenen Einheit ausgehen. Wir wissen aus Erfahrung, dass chauvinistische Gefühle und protektionistische Interessen leicht zu Streitigkeiten und Rivalitäten zwischen zwei Demokratien führen können; und es ist nicht gesagt, dass ein reicher sozialistischer Staat notwendigerweise seine eigenen Ressourcen mit einem ärmeren sozialistischen Staat teilt, nur weil sich beide Staaten ähnliche Staatsformen gegeben haben.
Die Abschaffung der politischen und wirtschaftlichen Grenzen zwischen den Staaten ergibt sich also nicht zwangsläufig aus der synchronen Einführung einer bestimmten Staatsform in den betroffenen Staaten, sondern stellt ein eigenständiges, von der Staatsform unabhängiges Problem dar, das mit geeigneten und angemessenen Mitteln in Angriff genommen werden muss. Man kann nicht Sozialist sein, ohne gleichzeitig auch die internationale Staatengemeinschaft zu wollen, doch leitet sich das eher aus der ideologischen Überzeugung ab als aus einer politischen und wirtschaftlichen Notwendigkeit; und aus dem Sieg des Sozialismus in einzelnen Staaten entsteht nicht notwendigerweise auch der internationale Staat.
2.) Auch eine weitere Überlegung führte zu der Überzeugung, die föderalistische Zielsetzung unabhängig von der Sichtweise der Parteien zu verfolgen. Die existierenden politischen Parteien ziehen ihre Erfahrungen aus den in der Vergangenheit auf nationaler Ebene geführten politischen Kämpfen, und deshalb werden – sei es aus Gewohnheit oder aus Tradition – die Bedingungen des Nationalstaates bei allen anstehenden politischen Fragen als Basis und Ausgangspunkt genommen und somit die Probleme der internationalen Ordnung als Angelegenheiten der „Außenpolitik“ angesehen, die durch diplomatische Bemühungen und Abkommen zwischen den einzelnen Regierungen gelöst werden müssen. Diese Haltung ist zum Teil Ursache und zum Teil aber auch Folge der oben beschriebenen Überzeugung der Parteien, dass mit der Übernahme der Zügel im eigenen Land, eine Einigung und Vereinigung mit den Ländern, die ähnliche Staatsformen übernommen haben, automatisch zustande kommt, ohne dass ein spezifisch auf dieses Ziel ausgerichteter politischer Kampf geführt werden muss.
Bei den Verfassern der vorliegenden Schriften war stattdessen die folgende Überzeugung herangereift: Sieht man die Frage der internationalen Staatenordnung als das zentrale Problem der gegenwärtigen historischen Epoche, und betrachtet man die Lösung dieses Problems als die notwendige Bedingung für die Lösung aller weiteren institutionellen, wirtschaftlichen und sozialen Fragen unserer Gesellschaft, so muss man gezwungenermaßen auch alle anderen Fragen, die die internen politischen Auseinandersetzungen betreffen, aus dieser Perspektive betrachten, einschließlich der Positionen jeder einzelnen Partei bezüglich ihrer Strategie und Taktik im alltäglichen politischen Handeln. Alle Fragen, ausgehend von den in der Verfassung verbrieften Freiheitsrechten bis hin zum Klassenkampf, von der Organisation und Planung bis hin zur Machtübernahme und Machtausübung, stehen unter einem neuen Licht, wenn man von der Prämisse ausgeht, dass ein einheitliches System auf internationaler Ebene das wichtigste und vorrangigste politische Ziel ist. Auch die Form des eigentlichen politischen Handelns, das heißt mit welcher anderen politischen Kraft man zusammenarbeitet, welches Losungswort man programmatisch hervorhebt, verändert sich, je nachdem ob man sich als Hauptziel die Machtübernahme und Durchsetzung bestimmter Reformen auf einzelstaatlicher Ebene setzt, oder aber die Schaffung der wirtschaftlichen, politischen und ethischen Voraussetzungen für das Entstehen einer föderativen Ordnung, die den ganzen Kontinent umfasst.
3.) Eine weitere – und vielleicht wichtigste – Ursache ist darin zu sehen, dass sich das Ideal einer europäischen Föderation, Präludium zu einer weltweiten Föderation, das noch vor wenigen Jahren wie eine ferne Utopie erscheinen musste, heute am Ende dieses Krieges als erreichbares, beinahe mit der Hand berührbares Ziel offenbart. In der totalen Vermischung der Völker, die dieser Konflikt in allen der deutschen Besatzung unterworfenen Gebieten verursacht hat, in der Notwendigkeit, die fast völlig zerstörte Wirtschaft wieder aufzubauen und alle Fragen, die Staats- und Zollgrenzen oder ethnische Minderheiten usw. betreffen, neu zu erörtern; durch das Wesen dieses Krieges an sich, in dem das nationale Element so oft von dem ideologischen Element überlagert wurde, in dem man gesehen hat, wie kleine und mittlere Staaten zu Gunsten stärkerer Staaten auf einen großen Teil ihrer Souveränität verzichtet haben, und in dem von Seiten der Faschisten selbst der Begriff der „nationalen Unabhängigkeit“ durch den des „Lebensraums“ ersetzt wurde; aus allen diesen Elementen können wir Beweise herauslesen, die die Aktualität der Frage einer föderativen Ordnung Europas so deutlich wie nie zuvor werden lassen.
Kräfte aus allen sozialen Klassen werden aus ökonomischen ebenso wie aus ideellen Gründen ein besonderes Interesse daran haben. Man wird sich diesem Thema mittels diplomatischer Verhandlungen nähern können und mittels Volksagitation; indem man in den gebildeten Schichten das Studium der damit verbundenen Fragen fördert und revolutionäre Zustände herbeiführt, die – erst einmal entstanden – nicht mehr ungeschehen gemacht werden können; indem man auf die politische Führung der Siegermächte einwirkt und in den besiegten Staaten die Losung verbreitet, dass sie nur in einem freien und vereinigten Europa ihre Rettung finden und die entsetzlichen Folgen der Niederlage mindern können.
Aus all dem ist unsere Bewegung entstanden. Da ist die Vor – rangstellung und das Primat, das diese Frage vor allen anderen Fragen unserer Zeit einnimmt; und da ist die Gewissheit, dass die Gelegenheit für immer verloren wäre, ließen wir es zu, dass wieder nach den alten nationalistischen Mustern verfahren wird und dass dann kein dauerhafter Frieden und Wohlstand für unseren Kontinent möglich sein wird. All dies hat uns von der Notwendigkeit überzeugt, eine parteiunabhängige Organisation zu gründen, die sich für die nun nahende Nachkriegszeit die Verbreitung der Idee einer europäischen Föderation als realisierbares Ziel setzt.
Wir leugnen nicht die Schwierigkeiten dieses Unterfangens, genauso wenig wie die Macht der Kräfte, die unserer Sache entgegen arbeiten; aber heute glauben wir zum ersten Mal, dass unsere Sache nicht nur als weit entferntes Ideal, sondern als dramatisch unaufschiebbare Notwendigkeit auf die Tagesordnung der politischen Auseinandersetzung gesetzt werden muss.
Unsere Bewegung, die jetzt bereits seit nahezu zwei Jahren ein schwieriges Leben im Untergrund unter der faschistischen und nazistischen Unterdrückung führt, deren Angehörige aus den Reihen der antifaschistischen Widerstandskämpfer kommen und alle im bewaffneten Kampf für die Freiheit geeint sind und schon im Gefängnis einen harten Preis für die gemeinsame Sache gezahlt haben, diese unsere Bewegung ist keine politische Partei und will das auch nicht sein. Immer klarer definiert unsere Bewegung das eigene politische Handeln, dass sie auf die verschiedenen politischen Parteien einwirken und auch in innerhalb der Parteien selbst arbeiten will, nicht nur um die internationalistischen Aufgaben voran zu treiben, sondern auch und in erster Linie um daran zu arbeiten, dass alle Probleme des politischen Lebens unter diesem neuen Blickwinkel betrachtet werden, dem bisher so wenig Aufmerksamkeit geschenkt wurde. Wir sind keine politische Partei, obwohl wir die umfassende Analyse der institutionellen, wirtschaftlichen und sozialen Ausrichtung der europäischen Föderation aktiv fördern, obwohl wir aktiv an dem Kampf für deren Durchsetzung teilnehmen und uns damit beschäftigen, welche Kräfte in der künftigen politischen Auseinandersetzung für sie eintreten könnten, trotz alledem wollen wir uns nicht öffentlich dazu äußern, wie die Institutionen im Einzelnen aussehen sollen, in welchem Ausmaß die Wirtschaft verstaatlicht oder die Verwaltung dezentralisiert werden soll usw. usw., also über die Merkmale des künftigen föderalen Gefüges. Wir lassen es zu, dass im Inneren unserer Bewegung diese Themen offen und frei diskutiert werden, und dass alle politischen Tendenzen, von der kommunistischen bis zur liberalen, bei uns vertreten sind. In der Tat sind fast alle unserer Anhänger in einer der fortschrittlichen Parteien tätig: Alle stimmen darin überein, die Prinzipien einer freien Europäischen Föderation zu vertreten und deren Durchsetzung zu fördern, einen europäischen Bundesstaat zu wollen, der weder auf einer irgendwie gearteten Hegemonie basiert, noch auf totalitären Systemen, und der von einer strukturellen Stabilität getragen sein soll, die ihn nicht zu einer einfachen Gesellschaft der Nationen werden lässt. Derartige Prinzipien lassen sich unter den folgenden Punkten zusammenfassen: eine einheitliche föderale Armee, ein einheitliches Währungssystem, Abschaffung der Zollschranken und der Beschränkungen der Freizügigkeit innerhalb der Staaten der Föderation, direkte Vertretung der Bürger bei den föderalen Versammlungen und eine gemeinsame Außenpolitik.
In diesen beiden Lebensjahren hat unsere Bewegung sich innerhalb der antifaschistischen Gruppen und Parteien weit verbreitet. Einige von ihnen haben uns öffentlich ihre Anhängerschaft und ihre Sympathie erklärt. Andere haben uns aufgerufen, an der Formulierung ihrer Programme mitzuarbeiten. Es ist sicherlich nicht anmaßend zu behaupten, dass es zum Teil unser Verdienst ist, wenn die Probleme der Europäischen Föderation so oft in der italienischen Untergrundpresse behandelt werden. Unsere Zeitschrift „L’Unità Europea“ verfolgt mit Aufmerksamkeit die Ereignisse der italienischen und internationalen Politik, und bezieht diesbezüglich mit absolut unabhängigem Urteil Position.
Die vorliegenden Schriften sind das Ergebnis unserer Überlegungen und Ideen, die zur Geburt unserer Bewegung geführt haben, jedoch geben sie nur die Meinung der Autoren wieder und sind keineswegs als einzige und unabdingbare Position der Bewegung selbst zu verstehen. Sie wollen nur all denen Diskussionsthemen vorschlagen und Anregungen geben, die die Fragen in der internationalen Gesamtheit neu überdenken wollen, wobei nicht nur die jüngsten ideologischen und politischen Erfahrungen einbezogen werden, sondern auch die neuesten Ergebnisse der Wirtschaftswissenschaften und die Perspektiven für die Zukunft, die uns am sinnvollsten und vernünftigsten erschienen. Es werden bald weitere Arbeiten und Analysen folgen. Es ist unser Anliegen, dass sie das Entstehen neuer Ideen beflügeln und dass sie in Anbetracht des gegenwärtigen Handlungsdrucks und der aktuellen Dringlichkeit zur Klärung des Sachverhalts beitragen, denn Klarheit und Wissen macht unser politisches Handeln immer entschiedener, bewusster und verantwortungsvoller.
Die italienische Bewegung für die Europäische Föderation
Rom, den 22. Januar 1944

 

Für ein freies und vereintes Europa. Enwurf zu einem Manifest
Ventotene, 1941
Altiero Spinelli, Ernesto Rossi

I. Die Krise der modernen Gesellschaft

Die Grundlage der modernen Gesellschaft ist das Prinzip der Freiheit, wonach der Mensch niemals bloßes Objekt des anderen sein darf, sondern immer ein autonomes Subjekt ist. Auf diesem Grundsatz fußend begann ein gewaltiger historischer Prozess gegen all diejenigen Aspekte des Lebens, die dieses Prinzip missachteten.
1.) Allen Nationen wurde das Recht zugesprochen, sich in unabhängigen Staaten zusammenzuschließen. Jedes Volk, gekennzeichnet durch die eigene geographische, ethnische, sprachliche und historische Identität, sollte in diesem, entsprechend der eigenen politischen Auffassung selbst geschaffenen Staat das geeignete Werkzeug finden, um seine spezifischen Bedürfnisse auf die beste Art und Weise und unabhängig von jeder äußeren Einmischung zu befriedigen. Die Ideologie der nationalen Unabhängigkeit wurde zu einer starken Triebfeder des Fortschritts und hat dazu beigetragen, den engstirnigen und bornierten Lokalpatriotismus zugunsten einer größeren, umfassenderen Solidarität gegen die Unterdrückung und Fremdherrschaft zu überwinden, auch wurden viele der Hindernisse abgeschafft, welche den freien Verkehr von Personen und Waren einschränkten und innerhalb des neu geschaffenen Staates wurde auch den weniger privilegierten Bevölkerungsschichten Zugang zu den fortschrittlichen staatlichen Institutionen und den Vorteilen einer modernen Staatsordnung verschafft. Diese Ideologie trug aber auch den Keim des kapitalistischen Imperialismus in sich, den unsere Generation mit Macht heranwachsen sah, bis hin zum Entstehen der totalitären Staaten und zum Ausbruch der Weltkriege. Der Nationalstaat wird heute nicht mehr als das historische Produkt des Zusammenlebens der Menschen angesehen, die in einem lang andauernden Prozess zu gemeinsamen und einheitlichen Lebensformen und – zielen gefunden haben und in ihrem Staat das wirksamste Mittel sehen, ihr Zusammenleben im Rahmen der gesamten menschlichen Gesellschaft zu gestalten. Die Nation wird heute jedoch zu einer Art göttlichem Wesen erhoben, zu einem Gebilde, das nur an den eigenen Vorteil und das eigene Fortkommen denkt, ohne sich in irgendeiner Weise um den Schaden zu kümmern, welcher anderen dadurch zugefügt wird. Die uneingeschränkte Souveränität der Nationalstaaten hat dazu geführt, dass jeder einzelne Nationalstaat über den anderen herrschen will, da sich ein jeder von der Macht des anderen bedroht fühlt, und deshalb immer größere Gebiete als den eigenen „Lebensraum“ beansprucht, und damit auch das Recht, sich hier ohne Rücksicht auf andere bedenkenlos zu bedienen und die für die eigene Existenz notwendigen Ressourcen zu sichern. Diese Herrschaftsansprüche konnten nur dazu führen, dass der mächtigste und stärkste Staat die Vorherrschaft gewinnt und die schwächeren Staaten unterjocht.
Folgerichtig hat sich der Staat vom Garanten der Freiheit seiner Bürger zum Herren über seine Untertanen gewandelt, die ihm jederzeit und mit all ihren Kräften und Fähigkeiten zu Diensten stehen müssen, um die Kriegsmaschinerie zu höchster Leistung zu bringen. Auch in Friedenszeiten, die als Ruhephase zur Vorbereitung unvermeidlicher künftiger Kriege angesehen werden, ist die Macht der Militärkaste in vielen Ländern größer als die der bürgerlichen Schichten und behindert dadurch das Funktionieren der freiheitlichen politischen Staatsordnung immer mehr. Schule, Wissenschaft, Produktion und der Verwaltungsapparat dienen überwiegend der Steigerung des kriegerischen Potentials. Mütter werden zu Gebärmaschinen künftiger Soldaten herabgewürdigt und nach den gleichen Kriterien belohnt, wie besonders fruchtbare Nutztiere auf den Viehmärkten. Kinder werden vom zartesten Alter an zum Soldatenberuf und zum Hass auf die Fremden erzogen. Die individuellen Freiheiten sind aufgehoben, wenn alles militärischen Zwecken untergeordnet ist und alle jederzeit zum Waffendienst gerufen werden können. Immer neue Kriege zwingen die Menschen, ihre Familien, ihre Arbeit und ihr Hab und Gut zu verlassen und ihr Leben für Ziele zu opfern, deren Sinn und Wert niemand wirklich begreift. In wenigen Tagen werden die Früchte jahrzehntelanger Arbeit zunichte gemacht, die doch den allgemeinen gesellschaftlichen Wohlstand vermehren sollten.
Den totalitären Staaten ist es am konsequentesten gelungen, alle gesellschaftlichen Kräfte zu vereinen und ein Höchstmaß an Zentralisierung und Autarkie zu verwirklichen, und somit scheint in den heute herrschenden internationalen Verhältnissen die totalitäre Staatsform die am besten geeignete zu sein. Wenn eine Nation einen Schritt in Richtung eines noch extremeren Totalitarismus macht, folgen ihr, von ihrem Überlebenswillen auf den gleichen Weg getrieben, alle anderen blind.
2.) Allen Bürgern wurde das gleiche Recht bei der Bildung des Staatswillens zugesprochen, verstanden als die aus freiem Willen zustande gekommene Synthese der unterschiedlichen, sich ändernden wirtschaftlichen und ideologischen Bedürfnisse aller sozialen Schichten. Eine solche politische Ordnung ermöglichte es, viele der von früheren Herrschaftssystemen sozusagen als Altlast übernommenen schlimmsten Ungerechtigkeiten zu korrigieren oder zumindest abzuschwächen. Doch die Pressefreiheit, die Vereinigungsfreiheit und die zunehmende Durchsetzung des allgemeinen und gleichen Wahlrechts erschwerten zusehends die Bewahrung der alten Privilegien und stärkte gleichzeitig das repräsentative System immer mehr.
Nach und nach lernten die Besitzlosen, sich dieser Instrumente zu bedienen und mit ihrer Hilfe die angestammten Rechte und Privilegien der besitzenden Klassen zu schwächen. Die Vermögens- und Erbschaftssteuer, die progressiven Steuersätze auf die größeren Vermögen, die Steuerfreiheit für Minimaleinkommen und lebensnotwendige Bedarfsgüter, die Abschaffung des Schulgelds für öffentliche Schulen, die Einführung eines staatlichen Sozialversicherungssystems, die Agrarreformen und die Regulierung und Kontrolle der industriellen Arbeitsbedingungen, all das bedrohte die privilegierten Schichten in ihrem innersten Kern.
Selbst jene privilegierten Schichten, die der politischen Gleichberechtigung zugestimmt hatten, konnten nicht zulassen, dass die mittellosen Klassen diese Freiheiten dazu nutzten, eine faktische Gleichheit durchzusetzen, die besagte Rechten mit dem konkreten Inhalt wirklicher Freiheit gefüllt hätte. Als dann nach dem Ende des Ersten Weltkriegs die Bedrohung zu stark wurde, war es nur natürlich, dass diese Schichten das Aufkommen der Diktaturen freudig begrüßten und aktiv unterstützten, die dann ihren Gegnern auch die gesetzlichen Waffen entzogen.
Darüber hinaus entstanden mächtige Interessensverbände, gewaltige Industrie-und Bankenkonzerne auf der einen und die Gewerkschaften, die unter einer einzigen Dachorganisation ganze Heerscharen von Arbeitern vereinigten, auf der anderen Seite, und sowohl die Gewerkschaften als auch die Industrieverbände übten starken Druck auf die Regierungen aus, um die jeweiligen Sonderinteressen durchzusetzen. Auf diesem Hintergrund drohte der Staat, in viele einzelne wirtschaftliche Interessensverbände zu zerfallen, die sich untereinander aufs heftigste bekämpften. Die liberal-demokratische Rechtsordnung wurde von diesen Gruppen genutzt, um das gesamte Gemeinwesen besser für die eigenen Interessen auszunutzen, und verlor so immer mehr an Ansehen. So entstand die Überzeugung, dass allein der totalitäre Staat unter Abschaffung der politischen Freiheiten des Volkes die Interessenskonflikte lösen konnte, deren die politischen Institutionen nicht mehr Herr zu werden vermochten.
In Wirklichkeit festigten die totalitären Regime die nach und nach errungene Stellung der verschiedenen Gesellschaftsklassen, und die Errichtung eines Polizeistaats, der das Lebens der Bürger total überwachte, sowie die gewaltsame Vernichtung aller Andersdenkender verhinderte jede rechtmäßige Möglichkeit zu einer Veränderung des Status Quo. Dadurch wurde das Fortbestehen des völlig parasitären Standes der Grundbesitzer und Rentiers gewährleistet, deren einziger Beitrag zur gesellschaftlichen Produktion im Einkassieren ihrer Zinserträge besteht, sowie der Monopole und Kartelle, die die Konsumenten ausnützen und das Geld der kleinen Sparer vernichten. Garantiert wird auch die Stellung der Plutokraten, die hinter den Kulissen die Politiker wie Marionetten beeinflussen, um so die ganze Staatsmaschinerie unter dem Vorwand übergeordneter nationaler Interessen zu ihrem eigenen persönlichen Nutzen zu lenken. Unangetastet bleiben die immensen Vermögen einiger weniger, und das Elend der großen Massen wird festgeschrieben, denen jede Möglichkeit, die Früchte der modernen Zivilisation zu genießen, verwehrt bleibt. Im Wesentlichen wird ein wirtschaftliches System aufrecht erhalten, in dem die materiellen Ressourcen und die Arbeitskraft, die eigentlich zur Befriedigung der für die Entwicklung und Erhaltung menschlicher Lebenskraft unerlässlichen Grundbedürfnisse eingesetzt werden sollten, statt dessen der Erfüllung der überflüssigen und überstiegenen Wünsche der Besitzenden dienen, die allein in der Lage sind, auch die höchsten Preise zu bezahlen: Ein wirtschaftliches System, in dem das Erbschaftsrecht dafür sorgt, dass die Macht des Geldes immer der selben Klasse vorbehalten bleibt, und zu einem Privileg wird, das dem sozialen Wert der tatsächlich geleisteten Dienste in keiner Weise entspricht. Demgegenüber ist die soziale Lage des Proletariats unerträglich, und die Arbeiter sind zum bloßen Überleben oft gezwungen, sich von jedem ausbeuten zu lassen, der ihnen irgendeine Arbeitsmöglichkeit anbietet.
Um die Arbeiterklassen handlungsunfähig und gefügig zu machen, werden die Gewerkschaften, gegründet als freie Organisationen, die sich dem Kampf für die Interessen ihrer Mitglieder verschrieben hatten und die von Personen geführt wurden, die das Vertrauen aller besaßen, in polizeiliche Überwachungsorgane umgewandelt, deren Führungskader von den herrschenden Gruppen eingesetzt werden und nur diesen gegenüber verantwortlich sind. Jedwede Veränderungen eines solchen Wirtschaftssystems werden ausschließlich von den Erfordernissen und Notwendigkeiten des Militarismus diktiert, die zusammenfallen mit den reaktionären Zielen der privilegierten Schichten, den totalitären Staat zu errichten und zu festigen.
3.) Gegen den autoritären Dogmatismus hat sich der bleibende Wert des kritischen Geistes durchgesetzt. Alles, was behauptet wurde, musste sich selbst rechtfertigen oder verschwinden. Der systematischen Anwendung dieser vorurteilslosen Haltung verdanken wir die größten Errungenschaften unserer Gesellschaft in jedem Bereich. Aber diese Freiheit des Geistes konnte der Krise, die in den totalitären Staat führte, nicht standhalten. Neue Dogmen, die aus Überzeugung oder Heuchelei übernommen werden, erheben sich als die Herrscher über alle Wissenschaften.
Niemand weiß wirklich, was eine Rasse ist, und schon die elementarsten Grundkenntnisse der Geschichte beweisen die Absurdität dieser Theorie, dennoch verlangt man von den Physiologen, daran zu glauben, dass man zu einer auserwählten Rasse gehöre, und dies auch überzeugend nachzuweisen, nur weil der Imperialismus diesen Mythos braucht, um in den Massen den Hass und den Nationalstolz zu schüren. Die eindeutigsten Begriffe der Wirtschaftswissenschaft werden auf den Index verbannt, um eine auf Autarkie abzielende Politik, eine ausgewogene Handelsbilanz und all die anderen alten Eisen des Merkantilismus als herausragende Entdeckungen unserer Zeit anzupreisen. Aufgrund der wechselseitigen wirtschaftlichen Abhängigkeit aller Teile der Welt ist der Lebensraum für jedes Volk, das den Lebensstandard einer modernen Gesellschaft bewahren will, auch der ganze Erdball. Doch es wurde die Pseudowissenschaft der Geopolitik geschaffen, die die Gültigkeit der Theorie vom Lebensraum beweisen will, um den Herrschaftswillen des Imperialismus theoretisch zu untermauern.
Die wesentlichen Daten der Geschichte werden im Interesse der herrschenden Klasse gefälscht. Die Bibliotheken und Buchhandlungen werden von allen, nicht für rechtgläubig gehaltenen Werken gesäubert. Die Finsternis des Obskurantismus droht erneut, den menschlichen Geist zu ersticken. Selbst die Sozialethik der Freiheit und der Gleichheit wird ausgehöhlt. Die Menschen werden nicht mehr als freie Bürger angesehen, die sich des Staates bedienen können, um ihre gesellschaftlichen Ziele und Interessen wirksamer durchsetzen zu können. Sie werden zu Untertanen des Staates, der bestimmt, wie ihre Ziele und Interessen auszusehen haben. Der Wille des Staates wird zu dem Willen der Statthalter der Macht. Die Menschen sind keine mit Rechten ausgestatteten Personen mehr, sondern sie sind einer klaren Hierarchie unterworfen und müssen den höheren Autoritäten widerspruchlos gehorchen, an deren Spitze ein Führer steht, der gebührend vergöttlicht werden muss. Das Kastensystem ist allmächtiger als je zuvor aus seiner eigenen Asche wieder auferstanden. Dieses reaktionäre totalitäre System hat, nachdem es in einigen Länden gesiegt hat, im nationalsozialistischen Deutschland eine Macht gefunden, die sich für fähig hielt, diese Ideologie bis in die letzte Konsequenz umzusetzen. Nach gründlicher Vorbereitung und dreister und skrupelloser Ausnutzung bestehender Rivalitäten, Egoismen und der Dummheit der anderen gelang es Hitler-Deutschland auch noch andere Vasallenstaaten mit sich zu reißen, zuerst Italien, danach hat es sich mit Japan verbündet, das in Asien identische Ziele verfolgte, und alle in einen Angriffskrieg zur Errichtung der Weltherrschaft gestürzt. Ein Sieg würde die endgültige Durchsetzung des Totalitarismus auf der Welt bedeuten, und das in seiner brutalsten Form, und die progressiven Kräfte wären für lange Zeit zu bloßer negativer Opposition verdammt.
Die traditionelle Arroganz und der Starrsinn der deutschen Militärkaste kann uns schon eine Vorstellung davon geben, wie ihre Herrschaft nach dem totalen Sieg aussehen würde. Die siegreichen Deutschen könnten sich sogar einen Anflug von geheuchelter Großzügigkeit gegenüber den anderen europäischen Völkern leisten, ihre Staatsgebiete und politischen Institutionen formal anerkennen, um so die eigene Herrschaft zu sichern, denn so wäre diesem törichten patriotischen Gefühl Genüge getan, das die Farben der Grenzpfähle und die Nationalität der im Rampenlicht stehenden Politiker für wichtiger hält als das tatsächliche Kräfteverhältnis und den wirklichen Inhalt der staatlichen Institutionen. Wie auch immer verkleidet, wäre die Realität doch immer die gleiche, nichts als die erneute Aufteilung der Menschheit in Spartiaten und Heloten.
Auch eine Kompromisslösung zwischen den kämpfenden Parteien würde einen weiteren Schritt hin zum Totalitarismus bedeuten, wären doch alle Länder, die dem Würgegriff Deutschlands entgangen sind, zur Anwendung der gleichen politischen Organisationsformen gezwungen, um sich angemessen auf einen Wiederbeginn des Krieges vorzubereiten. Aber Hitlerdeutschland hat dadurch, dass es die kleineren Staaten einen nach dem anderen unterjocht hat, auch größere und mächtigere Länder zur Gegenwehr gezwungen. Der Mut und Kampfgeist Großbritanniens, das selbst zu einem äußerst kritischen Zeitpunkt, als es dem Feind allein gegenüberstand, in den Krieg eintrat, hat dazu geführt, dass die Deutschen auf den zähen Widerstand der sowjetischen Streitkräfte trafen, und dies gab Amerika Zeit zur Mobilisierung all seiner unermesslichen materiellen und humanen Ressourcen. Dieser Kampf gegen den deutschen Imperialismus war eng verbunden mit dem des chinesischen Volkes gegen den japanischen Imperialismus.
Unzählige Menschen haben sich schon gegen die totalitären Mächte gestellt, und enorme Finanzmittel wurden schon bereitgestellt. Die Macht der totalitären Länder hat schon ihren Höhepunkt erreicht und wird von nun an unaufhaltsam ihrem Niedergang entgegengehen. Die Gegenkräfte haben dagegen ihren Tiefpunkt bereits überwunden und werden immer stärker.
Der Krieg der Alliierten stärkt jeden Tag aufs Neue den Willen zur Befreiung, auch in den besetzten und unterjochten Ländern, die sich unter der Gewalt selbst aufgegeben hatten. Der Wille zur Befreiung erwacht sogar in den Völkern der Achse, die sich bewusst werden, dass sie in den Abgrund gerissen werden, nur um die Gier ihrer Machthaber zu befriedigen.
Unzählige Menschen wurden von dem neuen Regime verformt, verblendet und haben sich angepasst, und so konnte sich die totalitäre Macht festigen, doch heute ist dieser langsame Prozess nicht nur unterbrochen, sondern es hat schon längst eine entgegengesetzte Entwicklung begonnen. In dieser starken, sich langsam erhebenden Bewegung finden sich alle progressiven Kräfte wieder: Die aufgeklärten Teile der Arbeiterklasse, die weder Gewalt und Terror noch Schmeicheleien von ihrem Streben nach einem besseren Leben abhalten konnten; die klarsten Köpfe der Intellektuellen, die die Erniedrigung der Intelligenz als Kränkung empfanden; Unternehmer, die sich zu neuen Initiativen fähig fühlen und die bürokratischen Fesseln der nationalen Autarkie abwerfen möchten, weil sie ihre Bewegungsfreiheit einengen; und schließlich all diejenigen, deren angeborener Sinn für Würde sie auch in der demütigenden Sklaverei den aufrechten Gang nicht hat vergessen lassen.
All diesen Kräften ist heute die Rettung unserer Zivilisation anvertraut.

II. Die Aufgaben der Nachkriegszeit. Die europäische Einheit

Die Niederlage Deutschlands würde aber nicht automatisch zu einer Neuordnung Europas nach unserem Ideal der Zivilgesellschaft führen. In der kurzen intensiven Zeit der allgemeinen Krise (während derer die Staaten zerstört am Boden liegen und die Volksmassen voller Sorgen auf neue Ideen warten werden, formbar und aufnahmefähig für neue Formen, bereit, die Führung ehrlicher international denkender Männer anzunehmen), werden die in den alten nationalstaatlichen Systemen ehemals am stärksten privilegierten Schichten mit Hinterlist oder mit Gewalt versuchen, die Welle der internationalen Begeisterung abzuschwächen, und sich ostentativ damit beschäftigen, das alte Staats- und Herrschaftssystem wiederherzustellen. Es ist wahrscheinlich, dass die englischen Staatsführer, vielleicht sogar im Einverständnis mit den führenden amerikanischen Politikern, versuchen werden, die Dinge in diese Richtung zu lenken, um die Politik des Gleichgewichts der Kräfte im scheinbar unmittelbaren Interesse ihrer Länder weiter verfolgen zu können.
Die konservativen Kräfte, das heißt die Amtsinhaber der wichtigsten Institutionen der Nationalstaaten; die Führungsschicht des Militärs, die auch bis in monarchistische Kreise reicht; all jene Gruppen des monopolistischen Kapitalismus, die das eigene Profitinteresse mit dem Staatsinteresse gleichgesetzt haben; die Großgrundbesitzer und die hohen kirchlichen Würdenträger, deren parasitäre Erträge nur durch eine stabile konservative Gesellschaftsordnung gesichert sind; und in ihrer Folge die ganze unzählige Schar derer, die von ihnen abhängen oder auch nur von ihrer althergebrachten Macht verblendet sind; alle diese reaktionären Kräfte spüren schon heute, dass das Fundament ihrer Macht brüchig geworden ist, und versuchen nun, zu retten, was noch zu retten ist. Der Zusammenbruch würde ihnen auf einen Schlag all die Sicherheiten nehmen, über die sie bisher verfügten, und sie dem Angriff der progressiven Kräfte aussetzen.
Die Revolutionäre Situation: Alte und Neue Strömungen
Der Zusammenbruch der totalitären Regime bedeutet für die Völker gefühlsmäßig die Rückkehr der „Freiheit“; die auf ihrem Siegeszug nicht aufzuhalten ist, und damit auch automatisch die Einführung der Meinungs- und Vereinigungsfreiheit. Das wird der Triumph der demokratischen Kräfte sein. Diese haben unzählige Nuancen, die von einem sehr konservativen Liberalismus bis hin zum Sozialismus und zur Anarchie gehen. Sie glauben an das „spontane Entstehen“ der Ereignisse und der Institutionen, an den absoluten Wert der Impulse, die von unten kommen. Sie wollen den Lauf der „Geschichte“, das „Volk“ und das „Proletariat“, oder wie auch immer ihre Götter heißen, zu nichts zwingen. Sie wünschen das Ende der Diktaturen, und stellen es sich wie die Rückgabe der unveräußerlichen Selbstbestimmungsrechte an das Volk vor. Die Krönung ihrer Träume ist eine verfassungsgebende Versammlung, gewählt unter strengster Achtung der Rechte des Wahlvolks und mit einem möglichst weit ausgedehnten Wahlrecht. Sie entscheidet darüber, welche Verfassung sich das Land gibt. Wenn das Volk dazu nicht reif ist, wird es sich eine schlechte Verfassung geben; doch kann diese nur durch eine fortwährende Überzeugungsarbeit verbessert werden.
Die Demokraten verzichten nicht prinzipiell auf Gewalt; sie wollen jedoch nur dann auf sie zurückgreifen, wenn die Mehrheit von ihrer Unvermeidbarkeit überzeugt ist, das heißt genau dann, wenn Gewaltanwendung nur noch ein nahezu überflüssiges Tüpfelchen auf dem „i“ darstellt. Die Demokraten taugen also als geeignete Führungskräfte nur in Zeiten des normalen demokratischen Lebens, in denen ein Volk im Grossen und Ganzen von der Zweckmäßigkeit und Funktionstüchtigkeit seiner Grundordnung überzeugt ist, die nur einer Änderung in vergleichsweise zweitrangigen Aspekten bedarf. In revolutionären Zeiten, in denen die Institutionen noch aufgebaut und nicht nur verwaltet werden müssen, scheitert die demokratische Praxis kläglich. Die bedauernswerte Unfähigkeit der Demokraten während der russischen, deutschen und spanischen Revolution sind drei der jüngsten Beispiel dafür. Nach dem Zusammenbruch des alten Staatsapparats mit seinen Gesetzen und seiner Verwaltung werden unzählige Volksversammlungen und Volksvertretungen einberufen, in denen der alte Rechtszustand dem Anschein nach entweder verteidigt oder aber rigoros abgelehnt wird und in denen alle fortschrittlichen gesellschaftlichen Kräfte zusammenfließen und die anstehenden Fragen aufgeregt erörtern. Das Volk hat gewiss einige grundlegende Bedürfnisse zu stillen, weiß aber nicht recht, was es wirklich will oder was zu tun ist. Tausend Glocken klingen in den Ohren des Volkes. Den Millionen unterschiedlicher Köpfe und Meinungen gelingt es nicht, eine gemeinsame Richtung zu finden, und das Volk zerfällt in eine Unzahl verschiedener Strömungen, die sich gegenseitig bekämpfen.
In einem solchen Moment ist jedoch größte Entscheidungsfähigkeit und größte Entschlossenheit gefragt, doch die Demokraten fühlen sich verloren, wenn sie keinen spontanen Volkskonsens hinter sich spüren, sondern nur einen unruhigen Aufruhr der Leidenschaften. Sie sehen es als ihre Pflicht an, diesen Konsens zu erreichen und appellieren mahnend von der Kanzel herab an das Volk, in einem Moment, in dem Menschen mit Führungsqualitäten gebraucht werden, die das zu erreichende Ziel klar vor Augen haben. Und so wird die günstigste Gelegenheit zur Festigung der neuen Staatsform verpasst, denn die in aller Eile einberufenen Organe benötigen eine lange Vorbereitungszeit und sind deshalb nur für Zeiten relativer politischer Ruhe geeignet. Sie spielen ihren Gegnern Waffen zu, die diese dann gegen sie selbst wenden. Sie zeigen mit ihren zahlreichen Widersprüchen nicht so sehr den Willen zur Erneuerung, sondern eher die allgemeine konfuse Tatenlosigkeit und Entscheidungsschwäche all der Kräfte, die sich gegenseitig lähmen und somit den Boden für die reaktionären Kräfte vorbereiten. In einer revolutionären Krise wird die politische Methode der Demokraten nichts als nutzloser Ballast sein.
Sobald die Demokraten mit ihren Wortgefechten ihre Beliebtheit als Verfechter der Freiheit verspielt haben, weil den Worten keine ernsthafte politische und soziale Revolution nachgefolgt ist, würden zweifelsohne die politischen Institutionen wiederauferstehen, die schon vor der Machtergreifung des Totalitarismus geherrscht haben, und die politische Auseinandersetzung würde nach den alten Mustern des Klassenkampfes fortgeführt werden.
Das Prinzip, wonach der Klassenkampf der einzige gemeinsame Nenner ist, auf den alle politischen Probleme zurückgeführt werden, war die Grundüberzeugung vor allem der Fabrikarbeiter und hat dazu beigetragen, ihrer Politik Geschlossenheit zu geben, so lange die grundlegenden Institutionen nicht in Frage gestellt wurden. Es verwandelt sich aber in ein Instrument zur Isolierung des Proletariats, wenn die gesamte Gesellschaftsordnung grundlegend erneuert werden muss. Die im Klassenkampf groß gewordenen Arbeiter haben noch nicht erkannt, dass ihre spezifischen Klasseninteressen, oder sogar die Interessen der Arbeiter einzelner Wirtschaftsbranchen nicht durchzusetzen sind, wenn sie nicht in die Interessen der anderen Gesellschaftsschichten eingebunden werden, oder aber sie streben die einseitige Diktatur ihrer Klasse an, um die utopische Kollektivierung aller Produktionsmittel zu erreichen, die von einer jahrhundertealten Propaganda als das Allheilmittel für all ihre Leiden angepriesen wird. Diese Politik kann keine andere Schicht außer die der Arbeiter begeistern und verliert somit die Unterstützung aller anderen progressiven Kräfte, oder liefert sie der Reaktion aus, die sich ihrer geschickt bedient, um der proletarischen Bewegung das Rückgrat zu brechen.
Unter den verschiedenen Strömungen der traditionellen Arbeiterbewegung, die der Klassenpolitik und dem kollektivistischen Ideal verpflichtet sind, waren es gerade die Kommunisten, die die Notwendigkeit, aber auch die Schwierigkeit erkannt hatten, für die Umsetzung ihrer Politik starke Bündnispartner zu finden. Deswegen haben sich die Kommunisten im Unterschied zu den anderen Volksparteien in eine streng organisierte Bewegung verwandelt und den Mythos der russischen Revolution ausgenutzt, um die Arbeiter in einer Einheitsbewegung zusam menzuschließen, jedoch wird die Arbeiterklasse nicht zum eigentlichen Entscheidungsträger erhoben, sondern als bloßes Werkzeug in den diversen aussichtslosen politischen Schachzügen eingesetzt.
Diese Vorgehensweise gibt den Kommunisten in revolutionären Krisen eine größere politische Effizienz als den Demokraten; doch versuchen die kommunistischen Kräfte unter dem Vorwand, dass die „wahre Revolution“ des Proletariats erst noch kommen werde, die Arbeiterklasse so weit wie möglich von den anderen revolutionären Kräften fernzuhalten, und so wird im entscheidenden Moment eine Spaltung hervorgerufen, die die Durchsetzung der politischen Zielsetzungen insgesamt schwächt. Auch ihre absolute Abhängigkeit vom russischen Sowjetstaat, der die nationalen kommunistischen Bewegungen des Öfteren dazu benutzt hat, die eigenen nationalen politischen Interessen durchzusetzen, verleiht der eigenen nationalen kommunistischen Politik keinerlei Kontinuität. Sie müssen sich immer hinter einem Karoly, einem Blum, einem Negrin verstecken, um dann umso widerstandsloser gemeinsam mit ihren demokratischen Strohmännern unterzugehen. Man erwirbt und festigt die Macht nicht nur durch kluge politische Schachzüge, sondern allein dann, wenn man auch in der Lage ist, glaubwürdige und realitätsnahe Antworten auf die Anforderungen der modernen Gesellschaft zu geben.
Bliebe der Kampf in der Zukunft auf das traditionelle nationale Feld beschränkt, so wäre es sehr schwer, den alten, bisher nicht gelösten Problemen zu entfliehen. Denn die Nationalstaaten haben ihre Wirtschaft bereits so weitgehend geplant, dass die Kernfrage schon bald wäre, welche wirtschaftliche Interessensgemeinschaft, mit anderen Worten welche Klasse, die wirtschaftlichen Schalthebel in der Hand hält. Die Front der progressiven Kräfte würde im Streit zwischen den Gesellschaftsklassen und den unterschiedlichen wirtschaftlichen Interessen leicht zerschmettert werden. Aller Wahrscheinlichkeit nach würden die reaktionären Kräfte daraus Profit schlagen.
Eine echte revolutionäre Bewegung muss von den Gruppierungen ausgehen, die den alten politischen Ausrichtungen kritisch gegenüberstehen. Sie wird lernen müssen, mit den demokratischen Kräften zusammenzuarbeiten, mit den Kommunisten, und ganz allgemein mit all denen, die zum Untergang des Totalitarismus beigetragen haben, ohne sich jedoch von der politischen Praxis irgendeiner dieser Kräfte instrumentalisieren zu lassen.
Die reaktionären Kräfte verfügen über fähige Männer und Führungspersönlichkeiten, die zum Befehlen erzogen wurden, und die entschlossen für den Erhalt ihrer Vorherrschaft kämpfen werden. In schweren Zeiten werden sie sich geschickt verstellen, sie werden vorgeben, Befürworter der Freiheit, des Friedens, des allgemeinen Wohlstands der ärmeren Klassen zu sein. Wir haben schon in der Vergangenheit gesehen, wie sie sich hinter den Volksbewegungen verborgen und diese gelähmt, umgeleitet und in das glatte Gegenteil verwandelt haben. Sie werden ohne Zweifel die gefährlichste Kraft sein, die es auszuschalten gilt.
Ihr Ziel wird mit aller Sicherheit die Wiederherstellung des Nationalstaates sein. Hierbei können sie auf das am weitesten verbreitete Volksempfinden zurückgreifen, auf das Nationalgefühl, das durch die vergangenen Erschütterungen am meisten verletzt wurde und von den Reaktionären am leichtesten manipuliert werden kann. Auf diese Weise können sie auch darauf hoffen, die Ideen ihrer Gegner leichter zu verwirren, da sich die einzige politische Erfahrung der Massen bisher im Rahmen der nationalen Grenzen bewegte. Deswegen ist es auch umso leichter, sowohl das Volk als auch seine kurzsichtigeren politischen Führer auf den Weg des Wiederaufbaus der durch die Katastrophe zerstörten Nationalstaaten zu locken.
Würden dieses Ziel erreicht, dann hätte die Reaktion gewonnen. Diese Staaten könnten sogar dem Anschein nach verhältnismäßig demokratisch und sozialistisch sein, doch wäre die Rückkehr der Macht in die Hände der reaktionären Kräfte nur eine Frage der Zeit. Die nationalen Rivalitäten würde wiedererwachen und jeder Staat erneut die Befriedigung seiner eigenen Bedürfnisse ausschließlich in die Hände des Militärs legen. Übergeordnetes Ziel wäre es, die Völker früher oder später wieder in den Krieg zu führen. Die Generäle würden wieder befehlen, die Monopolisten wieder von einer auf Autarkie ausgerichteten Wirtschaft profitieren, die bürokratischen Körperschaften würden sich wieder aufblähen, die Priester würden die Massen wieder zähmen. Alle Errungenschaften der ersten Stunde würden auf ein Nichts zusammenschrumpfen vor der Notwendigkeit, sich auf einen neuen Krieg vorzubereiten.
Das Problem, welches zu allererst gelöst werden muss und ohne dessen Lösung jeder andere Fortschritt nur ein Schein bleibt, ist die endgültige Abschaffung der Zersplitterung Europas in souveräne Nationalstaaten. Der Zusammenbruch der Mehrheit der Staaten des Kontinents unter der deutschen Dampfwalze hat schon das gemeinsame Schicksal der europäischen Völker besiegelt, denn entweder werden sie alle gemeinsam der Herrschaft Hitler-Deutschlands unterworfen oder aber alle gemeinsam nach dem Zusammenbruch dieses Regimes in eine revolutionäre Krise eintreten, in der sie sich aus ihren herkömmlichen Staats strukturen befreien und die vorhandene Trennung aufheben können. Schon heute stehen sie einem föderativen Wiederaufbau Europas viel wohlwollender gegenüber als in der Vergangenheit. Die dramatischen Erfahrungen der letzten Jahrzehnte haben auch denen die Augen geöffnet, die nichts sehen wollten, und haben viele günstige Umstände für unser Ideal geschaffen.
Alle vernünftigen Menschen haben inzwischen begriffen, dass ein Gleichgewicht unter den unabhängigen europäischen Staaten nicht aufrecht zu erhalten ist, solange das militaristische Deutschland unter gleichen Bedingungen mit den anderen Staaten zusammenlebt. Genauso wenig kann man Deutschland nach seiner Niederlage zerstückeln und es „mit dem Fuß im Nacken“ zu einem Kleinstaat degradieren. Es wurde klar, dass kein Land in Europa unbeteiligt bleiben kann, während die anderen sich bekriegen, und dass Neutralitätserklärungen und Nichtangriffspakte zu nichts nütze sind. Es ist inzwischen bewiesen, wie nutzlos, ja schädlich Organismen von der Art eines Völkerbundes sind, der vorgab, ein internationales Recht zu garantieren, ohne eine militärische Kraft zu besitzen, die in der Lage gewesen wäre, unter Wahrung der absoluten Souveränität der teilnehmenden Staaten internationale Entscheidungen durchzusetzen. Absurd ist das Prinzip der Nichteinmischung in die inneren Angelegenheiten eines Staates, nach dem jedes Volk frei sein sollte, sich eine beliebige despotische Regierung zu wählen, als wäre der innere Aufbau jedes einzelnen Staates nicht von vitalem Interesse für jeden anderen europäischen Staat. Unlösbar sind die vielfältigen Probleme, die das internationale Leben unseres Kontinents vergiften. Die Grenzziehung in den Gebieten mit gemischter Bevölkerung, die Verteidigung der nationalen Minderheiten, der Zugang zum Meer für Binnenländer, die Balkanfrage, die Irland-Frage, usw., all diese Probleme könnten in einer Europäischen Föderation leicht gelöst werden, ebenso wie in der Vergangenheit die verschiedenen Konflikte der Kleinstaaten mit ihrer Aufnahme in das größere nationale Staatsgebilde gelöst und dadurch entschärft wurden, dass sie nun als eine innerstaatliche Angelegenheit betrachtet wurden.
Auf der anderen Seite begünstigen viele Umstände das Errichten eines föderativen Systems, das allein in der Lage ist, der momentanen Anarchie ein Ende zu setzen: Der zerstörte Mythos der Unangreifbarkeit Großbritanniens, der die Engländer in die so genannte „splendid isolation“ getrieben hatte, bedeutete auch das Ende des Gefühls der Sicherheit; die Niederlage und Auflösung der französischen Streitkräfte und der französischen Republik schon beim ersten ernsthaften Angriff der deutschen Truppen (wodurch die chauvinistische Überzeugung von der absoluten gallischen Überlegenheit hoffentlich stark geschwächt wurde); und vor allem das allgemeine Erkennen der großen Gefahr, unter das deutsche Joch zu geraten. Auch die Tatsache, dass England inzwischen die indische Unabhängigkeit anerkannt hat, und dass Frankreich mit dem Eingestehen seiner Niederlage möglicherweise sein ganzes Imperium verloren hat, erleichtert es, eine Verständigungsbasis für eine europäische Neuordnung der kolonialen Besitztümer zu finden.
Dazu kommen schließlich noch der Untergang einiger der wichtigsten Dynastien und die schwankenden Grundfesten der übrigen Monarchien. Es muss dabei berücksichtigt werden, dass die Dynastien, welche die verschiedenen Länder als ihr traditionelles Erbteil betrachten, zusammen mit den mächtigen Interessen, in deren Einverständnis sie handelten, ein ernsthaftes Hindernis bei einer von der Vernunft gebotenen Errichtung der Vereinigten Staaten von Europa darstellten, da diese nur auf einer republikanischen Verfassung all ihrer Mitgliedsländer gegründet werden können. Und wenn sich, über den europäischen Horizont hinaus, in einer Zukunftsvision alle Völker der Menschheit in die Arme fallen sollten, dann muss man akzeptieren, dass die Europäische Föderation die einzige denkbare Garantie dafür darstellt, dass die Beziehungen zu den asiatischen und amerikanischen Völkern sich auf der Grundlage einer friedlichen Zusammenarbeit entwickeln können, in Erwartung einer weiter entfernten Zukunft, in welcher die politische Einheit des ganzen Erdballs möglich sein wird.
Die Trennungslinie zwischen den fortschrittlichen und den reaktionären Parteien verläuft also jetzt nicht mehr entlang der formalen Linie einer mehr oder weniger ausgeprägten Demokratie oder eines mehr oder weniger ausgeprägten sozialistischen Systems, sondern entlang der grundlegend neuen Trennungslinie: Auf der einen Seite stehen all diejenigen, die weiter dem alten Hauptziel, der Übernahme der politischen Macht im Nationalstaat verhaftet bleiben, und die, ohne es zu wollen, unvermeidlich zum Spielball der reaktionären Kräfte werden, indem sie die glühende, formbare Lava der Begeisterung des Volkes in die alten Formen pressen und dadurch die alten Absurditäten wieder auferstehen lassen, auf der anderen Seite stehen diejenigen Kräfte, die ihre Hauptaufgabe darin sehen, einen soliden und gefestigten internationalen Staat zu schaffen, und die Kräfte des Volkes in diese Richtung lenken wollen. Selbst wenn diese Kräfte die nationale Macht erobern sollten, werden sie diese in erster Linie als Werkzeug zur Verwirklichung der internationalen Einheit einsetzen.
Aufklärung, Propaganda und Aktion, aber auch eine Vielfalt von Absprachen und Zusammenarbeit zwischen den einzelnen Bewegungen, die in den verschiedenen Ländern zweifelsohne entstehen werden, bilden schon jetzt das Fundament für eine einheitliche Bewegung, die alle Kräfte zu mobilisieren vermag, um diesen neuen übernationalen Organismus ins Leben zu rufen, der nach Jahrhunderten die großartigste und fortschrittlichste Schöpfung in Europa sein wird. Es muss ein stabiler Bundesstaat aufgebaut werden, der die nationalen Streitkräfte zugunsten einer europäischen Streitmacht abschafft; der entschieden die Wirtschaftsautarkien zerschmettert, die das Rückgrat der totalitären Regime bilden; der über angemessene Staatsorgane und finanzielle Mittel verfügt, um in den einzelnen Bundesstaaten seine Entscheidungen, die dem Erhalt der gemeinschaftlichen Ordnung dienen, durchsetzen zu können, dabei aber gleichzeitig den einzelnen Staaten die Autonomie lässt, die es ihnen erlaubt, das politische Leben gemäß der besonderen Eigenheiten der jeweiligen Völker auszuformen und weiter zu entwickeln.
Wenn es in den größten europäischen Ländern genug Menschen gibt, die das verstehen, dann werden wir den Sieg binnen kurzer Zeit in unseren Händen halten, da die allgemeinen Umstände und der Zeitgeist unserem Werk zuarbeiten. Ihnen werden Parteien und Tendenzen gegenüberstehen, die sich durch die verheerende Erfahrung der letzten zwanzig Jahre selbst diskreditiert haben. Denn die Zeit ist gekommen, für neue Aufgaben, für den neuen Menschen, für die BEWEGUNG FÜR EIN FREIES UND VEREINTES EUROPA.

III. Die Aufgaben der Nachkriegszeit. Die Reform der Gesellschaft

Ein freies und vereinigtes Europa ist die notwenige Voraussetzung für die Weiterentwicklung der modernen Gesellschaft, die im Zeitalter des Totalitarismus zum Stillstand gekommen war. Das Ende dieser Ära wird sofort den historischen Prozess gegen die Ungleichheit und die sozialen Privilegien wieder entfachen. Alle alten, konservativen Institutionen, die diesen Prozess behinderten, werden zusammenbrechen; und diese Krise muss mit Mut und Entschlossenheit genutzt werden.
Die europäische Revolution muss, um unseren eigenen Ansprüchen zu genügen, sozialistisch sein, das heißt, sie muss also sich als Ziel die Emanzipation der arbeitenden Bevölkerung und das Erreichen würdigerer Lebensbedingungen für diese Schicht setzen. Der Richtung weisende Kompass kann hierbei aber nicht das rein doktrinäre Prinzip sein, nach dem das Privateigentum an den Produktionsmitteln prinzipiell abgeschafft werden muss, oder nur in einer Übergangsphase geduldet werden kann. Die allgemeine Verstaatlichung der Wirtschaft war die erste utopische Form, unter der sich die Arbeiterklasse die Befreiung vom kapitalistischen Joch vorstellte; jedoch sobald dies einmal vollständig durchgesetzt ist, führt dies nicht zum ersehnten Ziel, sondern zur Errichtung eines Regimes, in dem das ganze Volk im Dienst einer kleinen Kaste von Bürokraten steht, die die Wirtschaft verwaltet.
Das wahre Grundprinzip des Sozialismus besteht darin, dass die wirtschaftlichen Kräfte nicht über die Menschen herrschen sollen, sondern dass diese Kräfte, so wie es für die Naturgewalten zutrifft, auf vernünftige Weise von den Menschen gezähmt, gelenkt und kontrolliert werden sollten, damit die großen Massen nicht zu ihrem Opfer werden (die allgemeine Kollektivierung stellt lediglich eine überstürzte und fehlerhafte Schlussfolgerung aus diesem Grundprinzip dar). Die enormen, aus dem individuellen Interesse entspringenden fortschrittlichen Kräfte, sollten nicht in der täglichen Routine ersticken, um dann vor der unlösbaren Aufgabe zu stehen, Unternehmungsgeist, Leistung und Engagement anschließend durch finanzielle Anreize und Gehaltsdifferenzierung wiederzuerwecken; diese Kräfte sollen stattdessen unterstützt und ausgebaut werden, und ihnen sollten größere Chancen zur Weiterentwicklung, Selbstentfaltung und Arbeitsmöglichkeiten gegeben werden. Gleichzeitig müssen die Rahmenbedingungen konsolidiert und perfektioniert werden, die zur Erreichung all der Ziele führen, die für die ganze Gesellschaft am wichtigsten sind. Das Privateigentum muss von Fall zu Fall abgeschafft, begrenzt, korrigiert oder auch erweitert werden, also nicht auf dogmatische und prinzipielle Art. Diese Richtlinie fügt sich selbstverständlich in den Prozess der Entstehung eines europäischen Wirtschaftslebens ein, das von dem Alptraum des Militarismus und des nationalen Bürokratismus befreit ist. Die rationale Lösung muss die Stelle der irrationalen einnehmen, auch im Bewusstsein der Arbeiter. Um den Inhalt dieser Richtlinie genauer zu klären und unter Berücksichtigung der Tatsache, dass die Angemessenheit und die Modalitäten jedes einzelnen Programmpunktes immer vor dem von jetzt an unverzichtbaren Hintergrund der europäischen Einheit beurteilt werden müssen, betonen wir die folgenden Punkte:
a) Es gibt Unternehmen, die nicht in privaten Händen verbleiben sollten, zum Beispiel Konzerne, die eine Monopolstellung eingenommen haben, die ihnen die Möglichkeiten zur Ausbeutung der Konsumenten bietet, zum Beispiel die Elektrizitätswerke; oder die Unternehmen von kollektivem Interesse, die aber Schutzzölle, Subventionen, Beihilfen usw. benötigen (das bekannteste Beispiel für diese Art von Industrie ist bisher in Italien die Eisen- und Stahlindustrie); und die Unternehmen, die wegen der Höhe des investierten Kapitals und der Anzahl der von ihnen beschäftigten Arbeiter oder aufgrund der Wichtigkeit des von ihnen beherrschten Wirtschaftszweigs, die Staatsorgane erpressen und eine für sie geeignete Politik erzwingen können (z.B.: Bergbau, Großbanken, große Rüstungsindustrien). Dies ist das Feld, in dem man sicherlich in großem Maßstab Nationalisierungen vornehmen muss, ohne jede Rücksicht auf angestammte Rechte und Privilegien.
b) Eigentums- und Erbschaftsrecht haben in der Vergangenheit dazu geführt, dass in den Händen weniger Privilegierter große Reichtümer angehäuft wurden, die während einer revolutionären Krise gerecht verteilt werden sollten, um die parasitären Schichten abzuschaffen und den Arbeitern die Produktionsmittel in die Hand zu geben, derer sie zur Verbesserung ihrer finanziellen Situation und zur Erreichung größerer Unabhängigkeit bedürfen. Wir denken dabei an eine Agrarreform, die das Land denen überschreibt, die es bebauen, wodurch die Anzahl der Grundbesitzer enorm ansteigen würde, oder an eine Industriereform, die das Eigentum der Arbeiter auf die nicht verstaatlichten Bereiche ausdehnt, und zwar durch Mitbestimmung, Betriebsaktien für Arbeiter usw.
c) Die jungen Menschen müssen durch angemessene Maßnahmen gefördert werden, damit die ungleichen Ausgangspositionen im Lebenskampf auf ein Minimum reduziert werden. Vor allem muss die öffentliche Schule eine reale Möglichkeit bieten, den Begabtesten und nicht nur den Reichsten den Zugang zu den höchsten Schul- und Studienabschlüssen zu ermöglichen; und das Bildungssystem muss in jedem Ausbildungs- und Studienzweig eine der Nachfrage des Marktes entsprechende Anzahl von Personen auf die unterschiedlichen Berufe und die freien und wissenschaftlichen Tätigkeiten vorbereiten, damit die Durchschnittslöhne für die verschiedenen Berufszweige mehr oder weniger gleich sind, wie unterschiedlich die Bezahlung innerhalb der gleichen Kategorie auch sein mag, entsprechend den unterschiedlichen persönlichen Leistungen und Fähigkeiten.
d) Die dank der modernen Technik schier unbegrenzte Möglichkeit der Massenproduktion lebenswichtiger Güter erlaubt es inzwischen, alle Menschen mit verhältnismäßig geringen sozialen Kosten mit Wohnung, Nahrung und Kleidung zu versorgen, um allen ein menschenwürdiges Leben zu gewährleisten. Die menschliche Solidarität gegenüber denjenigen, die im wirtschaftlichen Kampf unterlegen sind, sollte aber keine karitative Form annehmen, die immer erniedrigend ist und das gleiche Übel verursacht, das sie beseitigen will. Sondern sie soll mittels gezielter Maßnahmen allen Menschen bedingungslos eine angemessene Lebensqualität garantieren, ob sie nun arbeiten können oder nicht, ohne indes den Anreiz zur Arbeit, Leistung und zum Sparen zu verringern. Dadurch wird niemand mehr durch Armut gezwungen sein, halsabschneiderische Arbeitsverträge zu akzeptieren.
e) Die Befreiung der Arbeiterklasse kann nur unter den oben genannten Bedingungen stattfinden. Sie darf nicht wieder in die Hände der Wirtschaftspolitik der monopolistischen Syndikate fallen, die ganz einfach die Unterdrückungsmethoden des Großkapitals auf die Lebensbedingungen der Arbeiter übertragen. Die Arbeiter müssen ihre Vertrauensleute wieder frei wählen dürfen, damit Arbeits- und Lohnbedingungen kollektiv verhandelt werden, und der Staat muss die Rechtsmittel zur Verfügung stellen, die das Zustandkommen und Einhalten der abgeschlossenen Verträge garantieren. Alle monopolistischen Tendenzen können wirksam bekämpft werden, sobald diese sozialen Reformen durchgesetzt worden sind.
Diese Veränderungen müssen vorgenommen werden, um innerhalb der neuen Gesellschaftsordnung eine breite Schicht von Bürgern zu schaffen, denen die Aufrechterhaltung dieser Ordnung am Herzen liegt, und um dem politischen Leben eine freiheitliche Prägung zu geben, die durch einen starken Sinn für soziale Verantwortung gekennzeichnet ist. Auf dieser Grundlage haben die politischen Freiheiten wirklich einen konkreten Inhalt, nicht nur einen formalen, und das gilt für alle, denn dann wird die überwiegende Mehrheit der Bürger unabhängig und verantwortungsbewusst genug sein, um eine dauerhafte und wirksame Kontrolle über die ausführenden Gewalten auszuüben. Es wäre müßig, sich mit den konstitutionellen Institutionen aufzuhalten, da sich die Konditionen, unter welchen sie entstehen und wir ken sollen, nicht vorhersehen lassen. Daher würden wir nur wiederholen, was alle schon über die Notwendigkeit repräsentativer Organe wissen und gesagt haben; oder über die Gesetzgebungsverfahren; über die Unabhängigkeit der Rechtsprechung, die an die Stelle der aktuellen treten soll, und deren Aufgabe es ist, die verabschiedeten Gesetze unparteiisch umzusetzen; über die Presse- und Vereinigungsfreiheit, die zur Aufklärung der öffentlichen Meinung und zur effektiven Teilhabe aller Bürger am staatlichen und gesellschaftlichen Leben unentbehrlich ist. Lediglich zwei Fragen bedürfen weiterer Klärung, da sie in diesem Augenblick für unser Land von besonderer Wichtigkeit sind: die Beziehungen des Staates zur Kirche und die Form der politischen Vertretung.
a) Das Konkordat, mit welchem der Vatikan in Italien einen Vertrag mit dem Faschismus geschlossen hat, muss zweifelsohne annulliert werden, um den rein weltlichen, laizistischen Charakter des Staates zu unterstreichen, und um auf unwiderrufliche Weise das Primat des Staates über das gesellschaftliche Leben festzuschreiben. Alle religiösen Bekenntnisse müssen auf gleiche Weise respektiert werden, doch sollen keine staatlichen Gelder mehr an die Kirchen fließen.
b) Das vom Faschismus mit der korporativen Ordnung errichtete Kartenhaus wird zusammen mit den anderen Bestandteilen des totalitären Staates in sich zusammenfallen. Manche meinen, dass in diesen Trümmern das Material für eine neue Verfassung gefunden werden kann. Wir sind nicht dieser Meinung. Die korporativen Kammern, deklariert als branchen- und berufsständische Vertretungen, sind in den totalitären Staaten nichts anderes als ein die Rechte der Arbeiter verhöhnendes Instrument des Polizeistaats. Selbst wenn diese korporativen Kammern wirkliche Interessensvertretungen der verschiedenen Wirtschaftsbranchen wären, so sind die repräsentativen Organe der verschiedenen Berufskategorien niemals befähigt, in Fragen der allgemeinen Politik zu entscheiden, und in den rein wirtschaftlichen Fragen würden die mächtigsten und stärksten korporativen Vertretungen die Vorherrschaft über die schwächeren gewinnen. Den Gewerkschaften wird weitgehend die Aufgabe zufallen, mit den staatlichen Organen zusammenzuarbeiten, die für die Umsetzung gewerkschaftlicher Forderungen und Interessen zuständig sind. Es ist aber auszuschließen, dass ihnen eine gesetzgebende Funktion zugesprochen wird, denn dies würde eine Feudalanarchie im Wirtschaftsleben bedeuten, was zu einem neuen politischen Despotismus führen würde. Für viele, die sich blauäugig vom Mythos des Korporativismus verführen ließen, könnte die Idee einer Neu- und Umgestaltung dieses Systems verlockend sein; aber es muss eingesehen werden, wie absurd diese konfuse Lösung war. Der Korporativismus kann nur in der Form existieren, die er in den totalitären Staaten angenommen hatte, als Mittel zur Kontrolle und Reglementierung der Arbeiter durch regimetreue Funktionäre, die jede Aktion und Handlung im Interesse der regierenden Kaste überwachen.
Die revolutionäre Partei kann nicht erst im entscheidenden Moment dilettantisch und unvorbereitet aus dem Boden gestampft werden, sondern muss ab sofort wenigstens ihre zentrale politische Grundhaltung, ein allgemeines Rahmenprogramm und einen allgemeinen Aktionsplan ausarbeiten und festlegen. Sie sollte kein heterogenes Agglomerat verschiedener Strömungen sein, die sich nur aus einer Negativhaltung heraus als Übergangslösung zusammenschließen, das heißt aufgrund ihrer antifaschistischen Vergangenheit und in der bloßen Erwartung des Zusammenbruchs des totalitären Regimes, um dann wieder ihrer eigenen Wege zu gehen, sobald dieses Ziel erreicht ist. Die revolutionäre Partei weiß dagegen, dass ihre Arbeit mit dem Zusammenbruch des Totalitarismus erst wirklich beginnt. Deswegen muss sie aus Männern und Frauen bestehen, die bezüglich der wichtigsten Probleme der Zukunft einer Meinung sind.
Die Partei muss mit einer durchdachten Propaganda alle Unterdrückten des aktuellen Regimes erreichen, und die individuellen und schichtspezifischen Fragen aufgreifen, die am schmerzlichsten und dringendsten empfunden werden, in der Folge muss jedoch auch der Zusammenhang mit anderen Problemen und deren wahre Lösung aufgezeigt werden. Aber aus dem dauernd anwachsenden Umkreis ihrer Sympathisanten dürfen in den engeren Kreis Organisation der Bewegung nur diejenigen aufgenommen werden, die die europäische Revolution zum Hauptziel ihres Lebens gemacht haben und die diszipliniert Tag für Tag die nötige Arbeit leisten, die umsichtig und fortwährend für die Sicherheit aller Mitglieder sorgen, auch in Situationen der härtesten Illegalität, und die so das solide Netzwerk bilden, das dem labileren Umkreis der Sympathisanten Rückhalt verleiht.
Obwohl die Partei keine Gelegenheit auslassen und kein Wirkungsfeld vernachlässigen darf, um ihre Ideen zu verbreiten, muss sie doch ihre Bemühungen vor allem auf die Kreise konzentrieren, die als Katalysator zur Verbreitung von Ideen und auch als Rekrutierungsfeld kampfbereiter Männer am wichtigsten sind. Dies sind zuallererst die beiden sozialen Gruppen, die die Dramatik der aktuellen Lage am stärksten empfinden und die auch in der Zukunft entscheidend sein werden, und zwar die Arbeiterklasse und die Intellektuellen. Erstere haben sich der totalitären Geißel am wenigsten gebeugt, sie werden am schnellsten bereit sein, ihre Reihen neu zu ordnen. Die Intellektuellen, insbesondere die jüngeren, fühlen sich durch die herrschenden Despoten am meisten erstickt und angewidert. Nach und nach werden sich auch andere Schichten unvermeidlich von der allgemeinen Bewegung angezogen fühlen.
Jede Bewegung, die die Aufgabe verfehlt, diese Kräfte an sich zu binden, ist zur Erfolglosigkeit verdammt. Einer Bewegung, die nur aus Intellektuellen besteht, wird es am Rückhalt der Massen fehlen, der nötig ist, um den Widerstand der reaktionären Kräfte zu brechen, und eine solche Partei und die Arbeiterklasse würden sich gegenseitig misstrauen. Selbst wenn sie von demokratischen Gefühlen beseelt wäre, wäre sie doch geneigt, sich angesichts von Schwierigkeiten durch Mobilisierung aller anderen Klassen gegen die Arbeiter auf eine faschistische Restauration hin zu bewegen. Würde sich die Bewegung dagegen allein auf das Proletariat stützen, fehlte ihr die Klarheit des Denkens, die nur von den Intellektuellen kommen kann und notwendig ist, um die neuen Aufgaben und die neuen Wege richtig einzuschätzen. Sie würde im alten Klassendenken verhaftet bleiben, überall Feinde sehen und unvermeidlich in die doktrinäre kommunistische Lösung stolpern.
Während der revolutionären Krise ist es Aufgabe dieser Bewegung, die fortschrittlichen Kräfte zu organisieren und zu führen, auch unter Nutzung all der spontan im Schmelztiegel der revolutionären Massen entstehenden Volksorgane, die sich hier nicht versammeln, um Volksabstimmungen zu veranstalten, sondern weil sie darauf warten, in die richtige Richtung geführt zu werden. Unsere Bewegung bezieht ihre Vision und die Gewissheit darüber, was zu tun ist, nicht aus der Vorwegnahme eines noch gar nicht ausgebildeten Volkswillens, sondern aus der Gewissheit, die tief liegenden Bedürfnisse der modernen Gesellschaft zu vertreten. Unsere Bewegung gibt auf diese Weise die ersten Grundsätze für die neue Gesellschaftsordnung und den ersten sozialen Rahmen für die noch amorphen Massen. Durch diese Diktatur der Revolutionspartei wird der neue Staat geschaffen und mit ihm die neue, wahre Demokratie.
Es ist nicht zu befürchten, dass eine derartige Revolutionsregierung notwendigerweise in eine neue Despotie führt. Dies würde nur geschehen, wenn die neu geschaffene Gesellschaftsform auf der Unterwürfigkeit der Untertanen aufgebaut wäre. Wenn aber die Revolutionspartei mit fester Hand von Anfang an die Voraussetzungen für ein Leben in Freiheit schafft, also eine Gesellschaftsordnung, in der alle Bürger wirklich am staatlichen und gesellschaftlichen Leben teilhaben, dann wird deren Weiterentwicklung, auch durch eventuelle unbedeutende politische Krisen hindurch, in Richtung eines wachsenden Verständnisses und Akzeptierens der neuen Ordnung von Seiten aller Bürger und Schichten verlaufen, und deswegen das Funktionieren freier politischer Institutionen in immer größerem Maße ermöglichen. Heute ist der Augenblick gekommen, um die alten drückenden Lasten abzuwerfen, und bereit und offen zu sein für das Neue, das so ganz anders sein wird, als man es sich vorgestellt hatte. Die, die versagt haben im alten Regime, müssen die politische Bühne verlassen, und neue Energien unter den jungen Menschen müssen erweckt werden. Heute suchen und finden sich alle, die die Gründe der gegenwärtigen Krise der europäischen Zivilisation erkannt haben, und sie beginnen die Zukunft neu zu gestalten, und deshalb treten sie jetzt das Erbe all der Bewegungen an, die für die Menschlichkeit gekämpft haben, die aber bisher gescheitert sind, weil sie sich ein falsches Ziel gesetzt oder aber zu falschen Mitteln gegriffen haben.
Der Weg, der uns erwartet, ist weder leicht noch sicher. Aber wir müssen ihn gehen, und wir werden es tun!
Altiero Spinelli – Ernesto Rossi

 

Europese Unie: Versterking van de eigen identiteit

Het document geschreven door Altiero Spinelli en Ernesto Rossi, in samenwerking met Eugenio Colorni, dat in de afwijzing van totalitaire machten en nationalistische conservatieve krachten en in de opheffing van de verdeling van Europa in nationale staten de enige manier zag om de vrede te bewaren en het evenwicht en de voortgang van de volkeren te waarborgen, hoopt op en beraamt, daarbij zijn tijd vele jaren vooruitlopend, de oprichting van een supranationale Europese macht. De gedachte die naar voren gebracht is door de auteurs van het Manifest heeft de grote stap vooruit betekend in de opzet van een Europese unie welke zijn begin heeft gezien in het Verdrag van Rome en wat zich verder concretiseerde in de loop van de daarop volgende tientallen jaren.
De Europese Unie van vandaag, meer dan een echte federatie van staten, zoals gedroomd door Spinelli, Rossi en Colorni, is meer een confederatie waarin de nationale lidstaten een aantal taken op bepaalde gebieden gedelegeerd hebben. Dankzij het Manifest, opgesteld door iemand die ver vooruit in de tijd heeft kunnen kijken, kan de generatie van vandaag genieten van de voordelen van een voor een groot deel verenigd Europa en de hoop koesteren dat door middel van de Europese Unie men tot een eenheid van, en vrede en evenwicht tussen de daarin verenigde volkeren kan komen.
Het ligt niet in mijn capaciteiten noch voel ik mij professioneel competent om voorspellingen te kunnen formuleren betreffende de mogelijkheid dat de droom van Spinelli, Rossi en Colorni tot een complete realisatie zal komen, maar als gewoon burger beschouw ik zeer positief het feit dat op een aantal gebieden, zoals die betreffende monetaire zaken en milieupolitiek, de Europese Unie reeds een federalistische opzet heeft en als overtuigd Europese burger druk ik dan ook de hoop uit dat ook in andere sectoren de individuele staten zullen komen tot het aan de Europese Unie delegeren van een steeds groter deel van hun nationale soevereiniteit.
Ik ben er verder van overtuigd dat, in het licht van de vooruitgang welke er vooral in de laatste tien jaar is geweest, de bezorgdheid, welke naar voren is gebracht door een aantal lidstaten betreffende een bedreiging van de eigen nationale identiteit, het veld zal ruimen voor de positieve overweging dat uit de vergelijking met de andere identiteiten men zich een beter idee kan vormen van zijn eigen identiteit. Dit is ook de gedachte welke naar voren gebracht is door de Nederlandse Minister-President Jan Peter Balkenende die aanwezig was bij de ondertekening van de Europese Grondwet op 29 oktober 2004 in Rome.
De grondwet zou volgens Balkenende geen bedreiging zijn maar een versterking van de eigen identiteit. “Met deze grondwet levert Nederland zich niet uit aan Europa,” stelde hij, “we krijgen er juist meer greep op. Deze grondwet is een kans voor een middelgroot land als Nederland.”
Deze woorden zijn echter niet voldoende geweest om tijdens het referendum op 1 juni 2005 de Nederlandse bevolking ervan te overtuigen om de Europese grondwet als een vooruitgang te gaan beschouwen. Ook de recente uitslag van het Ierse referendum (juni 2008) over het Verdrag van Lissabon is een duidelijk signaal dat deze bezorgdheid er nog steeds is. Ik ben echter geneigd om het positieve optimisme te delen van José Manuel Barroso, voorzitter van de Europese Commissie, en doe zijn woorden de mijne worden: “Identiteit, dat is een gevaarlijk woord, omdat het vaak wordt afgezet tegen de identiteit van anderen. Daarom moeten we binnen de EU streven naar meerdere identiteiten en die combineren met cultuur. Want cultuur komt op mijn lijst van waarden boven economie.”
Ik ben het er volledig mee eens dat de individuele culturen gekoesterd moeten worden en dat de individuele ontwikkeling daarvan door moet gaan omdat de individuele culturen de grootste rijkdom zijn die Europa bezit en waardoor het in staat moet zijn zijn toekomst op te bouwen en zich te onderscheiden van andere delen van de wereld.
Juist de samenwerking van de grote Europese culturen zullen in staat zijn om die lawine van gedachten en ideeën naar voren te brengen die ons “oude” continent zo nodig heeft om verder te kunnen gaan.
De Europese Unie respecteert de verschillen in karakter en nationale identiteit van zijn lidstaten. Het is heel belangrijk het culturele erfgoed van ieder afzonderlijk land naar voren te brengen en aan de Unie te tonen opdat het belang ervan in wijde supranationale kringen ingezien, herkend en op prijs gesteld zal worden. Op deze manier draagt men bij tot de groei van de nieuwe Europese dimensie waar een grote groep euroburgers zich al van bewust is geworden.
Het is zeker dat mijn talenstudies en mijn persoonlijke wederwaardigheden er toe hebben bijgedragen, en dit reeds vanaf jonge leeftijd, om mij Europa te laten voelen als mijn natuurlijke geografische levensruimte en met groeiende besef heb ik mijn gevoel als zijnde een Europese burger geaccepteerd. Een belangrijk facet in mijn gevoelens is zonder twijfel te danken aan de verhouding met mijn Nederlandse echtgenoot en mijn aangetrouwde Nederlandse familie en de daaruit voortvloeiende gunstige situatie welke het voor mij mogelijk heeft gemaakt om over een lange tijd de ervaring van een confrontatie tussen twee culturen te kunnen hebben en de culturele en spirituele verrijking te voelen die is ontstaan uit het zich inwoner te voelen van twee zo verschillende landen. Om deze reden heb ik dan ook de opdracht om de vertaling van het Manifest van Spinelli en van het Voorwoord van Colorni te verzorgen voor mij van bijzondere betekenis gevonden.
Ik wil bij deze verduidelijken dat de vertaling van het Manifest in grote lijnen hetzelfde is gebleven ten opzichte van die welke door het Belgische ex-parlamentslid Ludo Dierikx is verzorgd die een zeer waarderend vriend van Altiero Spinelli was. Hij was verder heel actief in de Europese Federalistische Beweging en is een prominent lid van B Plus, de Belgische pressiegroep die voor “een waarachtig en evenwichtig federalisme” op nationaal en supranationaal niveau ijvert.
In het Manifest heb ik mij beperkt tot slechts een klein aantal ingrepen, ten dele noodzakelijk gezien een aantal zetfouten en lacunes in de ontvangen tekst en veranderingen in het lexicon, en verder in het vervangen van enigszins streekgebonden termen en enkele in onbruik geraakte of overbodige uitdrukkingen. Ludo Dierickx, in een uitwisseling van opinies over de door hem vertaalde tekst, heeft mij gezegd de schrijfstijl van het Manifest zeer moeilijk te hebben gevonden maar in ieder geval gepoogd te hebben om alles zo letterlijk mogelijk te vertalen.
Gezien het bijzondere historische moment en de bijzondere omstandigheden onder welke ze zijn geschreven, dit voor zowel de tekt van het Manifest van Ventotene als voor die van het Voorwoord van Colorni, ook al zijn ze geformuleerd in de stijl, krachtig en hoogdravend, welke karakteristiek is voor een proclamatie, zijn ze doortrokken van een grote emotionele spanning, welke voortkomt uit de nadrukkelijke bewustheid van de noodzaak van een authentieke vernieuwing en uit de wens om onder de mensen een bericht van hoop voor een toekomst van vrede en vrijheid te verspreiden.
Het Manifest is geschreven in de intense, opdringende en plechtige stijl waarmede men grote ideeën wil overbrengen en het geweten opnieuw wakker wil schudden. De taal van Altiero Spinelli en Ernesto Rossi, en ook die van Eugenio Colorni is de geleerde en literaire taal van de intellectuelen met complexe volzinnen en rijk aan ondergeschikte opeenvolgingen. Het volledige begrip van de tekst vraagt een attente en geconcentreerde lezing. De retorische nadruk, het herhalen van beelden en de constante aanwezigheid van frasen van een ingewikkelde structuur, hebben in een aantal gevallen de vertaling bemoeilijkt. Het is echter mijn doel geweest om deze te doen met respect voor de originele tekst, daarbij trachtend – waar mogelijk – de stijl aan de strakke structuur en aan het karakter van directheid en nuchterheid, die zo kenmerkend zijn voor de Nederlandse taal, aan te passen.

 

Voorwoord
door Eugenio Colorni (Rome 1944)

De onderhavige geschriften zijn geconcipieerd en opgesteld op het eiland Ventotene in de jaren 1941 en 1942. In die uitzonderlijke omgeving rijpte in de geest van enkelen een proces van heroverweging van alle problemen welke de eigenlijke redenen waren geweest van de verrichte actie en van de in de strijd ingenomen houding.
Dit alles tussen de mazen van een buitengewoon strenge discipline door, op basis van informatie welke men door middel van duizenden kunstgrepen zo compleet mogelijk trachtte te maken en met de triestheid van de geforceerde daadloosheid en de bezorgdheid omtrent de naderende bevrijding.
De afstand tot het concrete politieke leven gaf de mogelijkheid van een gedistantieerde blik en gaf aanleiding om de traditionele standpunten te herzien en de motieven te zoeken voor de mislukkingen uit het verleden. Dit niet zozeer t.a.v. technische fouten in de parlementaire of revolutionaire tactiek of van een algemene “onrijpheid” van de toestand, dan wel een onvolledigheid in de algehele opzet en t.a.v. het strijd gevoerd te hebben langs de gebruikelijke breuklijnen, met te weinig aandacht voor het nieuwe dat de realiteit kwam veranderen.
In de voorbereiding van het efficiënt strijden van de grote slag die zich voor de nabije toekomst aan de horizon aftekende, voelde men de behoefte om niet simpelweg de fouten van het verleden te corrigeren maar om de termen van de politieke problemen te her formuleren en dit met een gemoed vrij van doctrinaire vooroordelen of partij mythes.
Het was op deze manier dat in de geest van enkelen het centrale idee van de essentiële tegenstelling opkwam. De tegenstelling welke verantwoordelijk was voor de crisis, voor de oorlogen, voor de ellende en de uitbuiting die onze maatschappij kwellen en voor het bestaan van soevereine staten, geografisch, economisch en militair gekenmerkt, welke staten de andere staten als concurrenten en potentiële vijanden beschouwen, ieder voor zich ten opzichte van de ander levend in een situatie van voortdurend “bellum omnium contra omnes”. De redenen waardoor dit idee, op zichzelf niet nieuw, een aspect van nieuwheid aannam onder de omstandigheden en in de situatie waaronder er aan werd gedacht, zijn verschillende:
1) Ten eerste, de internationalistische oplossing, welke in het programma van alle progressieve politieke partijen staat, wordt door deze in zekere zin beschouwd als een noodzakelijke en bijna automatische consequentie van het bereiken van de objectieven die eenieder van deze partijen aan zich zelf voorlegt. De democraten menen dat het invoeren, binnen de grenzen van ieder land, van het door hen bepleitte staatsbestel, zeker tot de vorming van die algemene bewustheid zou leiden welke, in het geval van het wegvallen van de grenzen op cultureel en moreel terrein, als voorwaarde geldt van wat door hen essentieel bevonden wordt om tot een vrije unie van de volkeren te komen. Dit eveneens op politiek en economisch niveau. En de socialisten van hun kant denken dat de invoering in de verschillende staten van een dictatoriaal regime van het proletariaat vanzelf tot een collectivistische internationalistische staat zal leiden.
Nu toont een analyse van het moderne concept van de staat, van het geheel van de daarmee verbonden belangen en sentimenten, heel duidelijk aan dat, alhoewel de analogieën van het interne staatsbestel de relaties van vriendschap en samenwerking tussen staat en staat bevorderen, het zeker niet is gezegd dat zij automatisch en ook niet geleidelijk tot een unificatie leiden. Dit zeker voor zolang er collectieve interessen en sentimenten blijven welke gebonden zijn aan het behouden van een gesloten eenheid binnen de grenzen. We weten uit ervaring dat chauvinistische sentimenten en protectionistische belangen gemakkelijk kunnen leiden tot een botsing en tot concurrentie, ook tussen twee democratieën. Het is niet mogelijk om een echte socialist te zijn zonder daarbj ook internatio nalist te zijn. Het is niet mogelijk om een echte socialist te zijn zonder daarbij ook tussen twee democratieën. Het is niet gezegd dat een rijke socialistisch staat noodzakelijkerwijs moet accepteren dat zijn eigen rijkdommen met een andere veel armere socialistische staat worden gedeeld, alleen maar omdat daarin hetzelfde interne bewind heerst als dat bij zichzelf.
Het opheffen van de politieke en economische grenzen tussen staat en staat is noodzakelijkerwijs niet het gevolg van het gelijktijdige invoeren van een gegeven intern staatsstelsel in iedere staat. Het is echter een op zichzelf staand probleem wat met eigen, daarbij passende middelen moet worden aangepakt; uit een ideologische band, meer dan uit een politieke en economische noodzakelijkheid: De socialistische overwinning in afzonderlijke staten leidt noodzakelijkerwijs niet tot de internationale staat.
2) Wat de ontwikkeling van de federalistische stelling in autonoom opzicht verder accentueerde was het feit dat de bestaande politieke partijen, verbonden aan een verleden van gevechten, gestreden binnen de grenzen van iedere natie, uit gewoonte en uit traditie, gewend zijn om, bij hun opstelling ten opzichte van alle problemen, uit te gaan van de stilzwijgende veronderstelling van het bestaan van de nationale staat. De problemen van de internationale ordening moeten daarbij gezien worden als kwesties van de “buitenlandse politiek” welke opgelost moeten worden door middel van diplomatieke acties en door overeenkomsten tussen de verschillende regeringen.
Deze houding is ten dele de reden, en ten dele ook het gevolg van wat hier eerder is aangemerkt, dat als eenmaal de teugels van het bewind in het eigen land in handen genomen zijn, de overeenkomst en de unie met soortgelijke staatsbestellen in andere landen van zelf komt. Er is geen noodzaak voor het aanvangen van een politieke strijd welke direct daarmee verbonden is.
Onder de auteurs van de onderhavige geschriften had zich echter de overtuiging geworteld dat diegene die het probleem van de internationale ordening als het centrale punt van de hedendaagse geschiedenis wil opvatten, en voor wie de oplossing ervan als een noodzakelijke voorwaarde geldt voor het oplossen van alle constitutionele, economische en sociale problemen welke zich aan onze samenleving opdringen, noodzakelijkerwijs vanuit dit gezichtspunt alle vragen moet overwegen betreffende de interne politieke tegenstellingen en de standpunten van elke partij. Dit ook voor wat de dagelijkse tactiek en strategie van de dagelijkse strijd betreft. Alle problemen, vanaf diegene welke verbonden zijn met de constitutionele vrijheid tot die van de strijd tussen de klassen, van die gerelateerd aan het formuleren van doelstellingen tot degene welke verband houden met het in de hand nemen van de macht en het gebruik ervan, krijgen een nieuw licht als ze gesteld worden vanuit de veronderstelling dat het eerste te bereiken doel dat is van een unitaire ordening op internationaal niveau is. De politieke handelwijze zelf, het steunen op de ene of de andere in het spel aanwezige macht, het versterken van de ene of de andere opdracht, neemt een volledig verschillend karakter aan al naargelang men ze ziet als een essentieel middel om de macht in handen te krijgen en voor het invoeren van bepaalde hervormingen binnen elke afzonderlijke staat of als middel om economische, politieke en morele grondslagen te leggen ter invoering van een federale ordening welke het gehele continent omvat.
3) Nog een andere beweegreden – en misschien de meest belangrijke – werd gevormd door het feit dat het ideaal van een Europese federatie, preludium tot een wereldwijde federatie, wat slechts enkele jaren geleden een utopie leek, zich vandaag de dag aan het einde van deze oorlog presenteert als een bereikbaar doel en bijna binnen handbereik.
Door de algehele vermenging van de volkeren welke door dit conflict is veroorzaakt in alle landen welke onderhavig zijn geweest aan de Duitse bezetting, door de noodzakelijkheid om op nieuwe fundamenten een bijna totaal verwoeste economie opnieuw op te bouwen, om opnieuw alle problemen betreffende politieke grenzen, douane barrières, etnische minderheidsgroepen etc. opnieuw ter tafel te brengen, in al deze elementen, moeten feiten herkend worden, welke als nooit tevoren in dit naoorlogse tijdperk het probleem van de federale ordening van Europa actueel maken. Verdere elementen die hierbij toegevoegd kunnen worden zijn het eigen karakter van deze oorlog waarin het nationale element zo vaak door het ideologische element is voorbijgegaan, waarin men heeft gezien dat kleine en middelgrote staten voor een groot deel hun onafhankelijkheid hebben opgegeven ten goede van de sterkere staten, en waarin door de fascisten zelf het concept van “levensruimte” door “nationale onafhankelijkheid” vervangen is.
Krachten afkomstig uit alle sociale klassen, zei het om economisch – zei het om idealistische redenen, kunnen daarin geïnteresseerd zijn. Het is mogelijk om daar dichterbij te komen door middel van diplomatieke onderhandelingen en door middel van volksoproer, door het bevorderen onder de intellectuele klassen van de studie van de daarbij behorende problemen en door het veroorzaken van revolutionaire feiten, van waar, eenmaal gedaan, geen terugkeer mogelijk is. Verder kan dit doel bereikt worden door het invloed uitoefenen op de leidinggevende klassen van de overwinnende staten en door het verspreiden van het begrip in de overwonnen staten dat zij alleen in een vrij en verenigd Europa hun redding kunnen vinden en de verwoestende gevolgen van de nederlaag kunnen ontlopen.
Juist hiervoor is onze Beweging ontstaan. Het is de preëminentie, de prioriteit van dit probleem ten opzichte van alle welke in het tijdperk waarin wij verder gaan zich opdringen. Het is de zekerheid dat, als wij de situatie in de oude nationalistische vormen weer laten verharden, de kans voor altijd verloren zal zijn gegaan en ons continent er geen enkele langdurige vrede en voorspoed door zal kunnen verkrijgen. Het is dit alles wat ons ertoe gedreven heeft een autonome organisatie te creëren om voor het idee van een Federaal Europa in de nabije naoorlogstijd als een uitvoerbaar einddoel op te komen.
Wij verbergen voor onszelf de moeilijkheden hiervan niet en de sterkte van de krachten welke deze tegen zullen werken, maar wij denken dat het de eerste keer is dat dit probleem op tafel van de politieke strijd gebracht wordt, niet als een ver ideaal maar als een dringende en tragische noodzakelijkheid. Onze Beweging, welke sinds ongeveer twee jaar bestaat en in de moeilijke clandestiniteit onder de fascistische en nazistische onderdrukking leeft; waarvan de aanhangers uit de gelederen van de strijders van het anti-fascisme komen en het allen eens zijn met de gewapende strijd voor de vrijheid; welke al zijn hoge prijs heeft betaald voor het algemene doel in de vorm van de gevangeniscel; onze Beweging is en wil geen politieke partij zijn. Zoals zij zich steeds duidelijker heeft gekarakteriseerd, wil zij werken op en in de verschillende politieke partijen. Dit niet alleen met het doel om de internationalistische kwestie te accentueren maar ook en bovenal opdat alle problemen van hun politieke leven gesteld zullen worden uitgaande van dit nieuwe gezichtspunt, iets waar zij tot nu toe maar weinig aan gewend waren.
Wij zijn geen politieke partij, ook al bevorderen wij actief elke studie waar het de institutionele, economische en sociale opzet van de Europese Federatie betreft. Wij nemen actief deel aann de strijd voor haar realisatie en stellen ons ten doel de krachten te ontbloten welke ten voordele hiervan kunnen werken in de toekomstige politieke conjunctuur. Wij willen ons niet officieel uitspreken over institutionele details, over een hoge of lagere graad van economische collectivisering, over een hogere of lagere graad van administratieve decentralisatie etc. welke het toekomstige federale organisme zullen moeten karakteriseren.
Laten we dat in de schoot van onze beweging deze problemen uitgebreid en vrij besproken worden en laten alle politieke richtingen, van de communistische tot de liberale, bij ons vertegenwoordigd zijn. In feite zijn bijna al onze aanhangers actief in een van de progressieve politieke partijen; allen nemen deel aan het verspreiden van wat de basisprincipes zijn van een vrije Europese Federatie, niet gebaseerd op hegemonie van welk soort dan ook, niet op totalitaire principes, maar voorzien van een solide structuur welke haar niet reduceert tot een eenvoudige Vereniging van Naties. Deze principes kunnen in de volgende punten worden samengevat: een enkel federaal leger, monetaire eenheid, afschaffing van douanebarrières en van de beperkingen in de emigratie tussen de staten welke deel uitmaken van de Federatie, directe vertegenwoordiging van de bevolking in de federale vergaderingen en gemeenschappelijke buitenlandse politiek.
In deze twee levensjaren heeft onze Beweging zich wijd verbreid onder de antifascistische groepen en politieke partijen. Enkele van hen hebben publiek hun aanhang en sympathie geuit.
Anderen hebben ons gevraagd om aan hun programmatische formulering mee te werken. Het is misschien niet aanmatigend om te zeggen dat het ten dele onze verdienste is dat de problemen van de Europese Federatie zo vaak in de clandestiene Italiaanse kranten worden behandeld.
Onze krant «L’Unione Europea» (De Europese Unie) volgt met aandacht de gebeurtenissen in de interne en internationale politiek, daarbij ten opzicht hiervan een positie innemend van absolute onafhankelijkheid van oordeel.
De hierbij gevoegde geschriften, product van het verwerken van ideeën welk de geboorte van onze Beweging tot resultaat heeft gehad, representeren slechts de opinie van de auteurs, en betekenen niet het innemen van een positie van de Beweging zelf. Ze willen slechts een voorstel zijn voor discussiethema’s voor diegenen welke opnieuw alle problemen van het internationale politieke leven willen overdenken, daarbij rekening houdende met de meest recente ideologische en politieke ervaringen, met de resultaten van de meest recente economische wetenschap, met de meest voor de hand liggende en redelijke perspectieven voor de toekomst. Zij zullen spoedig gevolgd worden door andere studies. Onze wens is dat deze een gisting van ideeën tot gevolg zullen hebben, en dat in de huidige verhitte atmosfeer van de urgentie van actie, zij een bijdrage leveren ter verduidelijking, wat de actie steeds resoluter, bewuster en verantwoordelijker zal maken.
De Italiaanse Beweging voor de Europese Federatie
Roma, 22 Januari 1944

 

Voor een vrij en verenigd Europa. Ontwerp voor een Manifest
Ventotene, 1941
Altiero Spinelli, Ernesto Rossi

I. De crisis van de moderne maatschappij

Onze moderne maatschappij is gebaseerd op het principe van de vrijheid. Volgens dit beginsel is de mens geen instrument ten dienste van anderen, maar een autonoom centrum van leven. Uitgaande van deze basisgedachte is een groots historisch gevecht begonnen tegen alle aspecten van het maatschappelijk leven, waarin dat grondbeginsel niet werd toegepast.
1) Aan alle naties werd het recht toegekend zich in onafhankelijke staten te organiseren. Elk volk dat zich door zijn etnische, geografische, taalkundige en historische karaktertrekken onderscheidde, moest in zijn eigen staatsbestel, ingericht volgens zijn eigen opvatting van het politieke leven, het beste instrument vinden om aan zijn behoeften te voldoen, onafhankelijk van elke buitenlandse inmenging. De ideologie van de nationale onafhankelijkheid gaf een sterke impuls aan de vooruitgang. Ze verving de kleingeestige dorpsmentaliteit door bredere solidariteit tegen de onderdrukking door vreemde overheersers. Ze werkte vele hinderpalen weg die het vrije verkeer van mensen en goederen in de weg stonden. Binnen elke nieuwe staat breidde zij de instellingen en de wetten van de geciviliseerde streken tot de achtergebleven gebieden uit. Deze ideologie droeg echter ook de kiemen in zich van het kapitalistisch imperialisme dat in onze generatie zulke enorme afmetingen aanneemt; zij lag aan de basis van de vorming van totalitaire staten en leidde tot twee wereldoorlogen.
De natie wordt niet langer beschouwd als het historisch product van een samenleving van mensen die via een langdurig proces tot een grotere eenheid in gebruiken en strevingen gekomen zijn en die in hun staatsbestel een doeltreffend middel vinden om het collectieve leven te organiseren binnen het ruimere kader van het hele mensdom.
Neen, die natie is een goddelijk iets geworden, een organisme dat alleen aan eigen bestaan en eigen ontwikkeling denkt zonder zich op enigerlei wijze te bekommeren om het nadeel dat het anderen kan berokkenen. De absolute soevereiniteit van de nationale staten mondt telkens uit in overheersingsdrang omdat zij zich alle bedreigd voelen door de macht van de andere. De “levensruimte” wordt een steeds groter gebied dat hun moet toestaan zich vrij te bewegen en het eigen bestaan, onafhankelijk van alle andere, te verzekeren. Deze drang tot overheersen valt pas weg wanneer de sterkste staat de hegemonie verwerft en alle andere onderworpen heeft.
Van beschermer van de vrijheid van de burgers is de staat dus geworden tot de baas van zijn dienstbare onderdanen, die zijn militaire doeltreffendheid met al hun krachten zo groot mogelijk moeten maken. Ook in vredestijd, die beschouwd wordt als een periode van voorbereiding op de onafwendbare volgende oorlog, domineert de wil van de militairen in vele landen over die van de burgers, waardoor het functioneren van vrije politieke instellingen steeds moeilijker wordt. Onderwijs, wetenschap, productie en bestuur moeten vooral het oorlogspotentieel vergroten. Moederschap wordt gelijkgesteld met soldatenteelt; moeders worden met dezelfde maatstaven gedecoreerd als de vruchtbaarste dieren op jaarmarkten. Kinderen worden vanaf hun prilste jeugd opgeleid tot soldaten en vreemdelingenhaat wordt hun aangeleerd. Individuele vrijheden verdwijnen geheel daar eenieder gemilitariseerd is en steeds weer onder de wapens geroepen wordt. De voortdurende oorlogen dwingen de mannen hun familie, hun werk, hun hebben en houden achter te laten en hun leven op te offeren voor dingen waarvan eigenlijk niemand de waarde begrijpt. In enkele dagen worden de resultaten van tientallen jaren van inspanningen voor het algemeen welzijn totaal vernietigd.
De totalitaire staten hebben op de meest coherente manier de bundeling van alle krachten en de grootst mogelijke concentratie en autarkie verwezenlijkt. Zij hebben zich het best aan de huidige internationale toestand aangepast. Anderzijds is het voldoende dat één natie een stap doet naar een meer uitgesproken totalitarisme om de andere, in hun drang tot zelfbehoud, hetzelfde te laten doen. Alle naties worden zo in dezelfde draaikolk meegesleurd.
2) Aan alle burgers werd gelijkelijk het recht toegekend om tot de vorming van de staatswil bij te dragen. Deze wil moest aldus de synthese zijn van alle sociale klassen, die zich vrij kunnen uiten. Deze politieke reorganisatie heeft tot gevolg gehad dat vele van de schrijnendste ongerechtigheden, overgeërfd van voorbije regimes, weggenomen of ten minste verzacht konden worden. De persvrijheid, de vrijheid van vereniging en de geleidelijke uitbreiding van het stemrecht bemoeilijkten echter, bij instandhouding van het parlementaire systeem, steeds meer de handhaving van de oude privilegies.
Zij die niets bezaten leerden beetje bij beetje zich van deze instrumenten te bedienen om de strijd aan te binden tegen de voorrechten van de bezittende klassen. De belasting op de niet-verdiende inkomsten, de successierechten, de progressieve vermogensheffingen, de belastingvrijdom voor lage lonen en levensnoodzakelijke goederen, het gratis onderwijs, de verbetering van de sociale voorzieningen en uitkeringen, de landbouwhervormingen en de medezeggenschap van de fabrieksarbeiders bedreigden de bevoorrechte klassen in hun sterkste vestingen.
De bevoorrechte klassen, die ingestemd hadden met de gelijkheid van politieke rechten, konden echter niet toestaan dat het proletariaat hiervan gebruik zou maken om een feitelijke gelijkheid te verwerven, waardoor die rechten een concrete inhoud van vrijheid zouden krijgen. Toen deze dreiging na de Eerste Wereldoorlog te groot werd, was het heel natuurlijk dat de bevoorrechte klassen de instelling van dictaturen, die hun tegenstanders de wettelijke wapens ontnamen, gingen toejuichen en steunen.
Daarnaast dreigde de vorming van gigantische industrie- en bankgroepen en vakbonden (die hele arbeiderslegers onder één leiding verenigden) – welke groepen en vakbonden in hun eigen belang druk uitoefenden op de regering -, de staat zelf te doen uiteenvallen in talrijke elkaar bekampende economische vorstendommetjes. De vrije democratische instellingen, die het instrument werden waarvan deze groepen zich bedienden om de collectiviteit beter uit te buiten, verloren steeds meer prestige. Zo ontstond de opvatting dat alleen de totalitaire staat, die alle burgerlijke vrijheden afschaft, de belangenconflicten, waartegen de bestaande instellingen niet meer opgewassen waren, enigszins uit de weg kon ruimen. De totalitaire regimes hebben in feite over het algemeen de positie van de verschillende sociale klassen bevroren en hebben elke wettelijke mogelijkheid om alsnog verbetering te brengen in de bestaande toestand tenietgedaan door de politiecontrole op het hele leven van de burgers en door het gewelddadig uit de weg ruimen van alle dissidenten. Zo werd het voortbestaan verzekerd van de volstrekt parasitaire kaste van grootgrondbezitters en renteniers die tot de productie alleen maar bijdragen door het afscheuren van de dividendbewijzen van hun aandelen, van de monopolies en de grootwarenhuizen die de consument uitbuiten en het geld van de kleine spaarders doen vervliegen, van de plutocraten die achter de schermen aan de politieke touwtjes trekken en zo het hele staatsapparaat ten eigen voordele leiden onder het mom van de verdediging van hogere nationale belangen. Het contrast tussen de fantastische fortuinen van enkelingen en de ellende van de grote massa, die niet kan genieten van de voordelen van de moderne beschaving, bestaat nog steeds. Zo houdt men een economisch regime in stand waarin de materiële hulpmiddelen en de arbeidskrachten, die gebruikt zouden moeten worden om aan de fundamentele behoeften van de menselijke maatschappij te voldoen, gericht worden op de vervulling van de onnozelste verlangens van hen die de hoogste prijzen kunnen betalen; een economisch regime, waarin de macht van het geld door het erfrecht steeds in dezelfde klasse blijft en zo verwordt tot een privilege, die buiten alle verhouding staat tot de sociale waarde van de verrichte diensten. De mogelijkheden van de proletariërs blijven beperkt; om te kunnen leven zijn deze gedwongen zich te laten uitbuiten door hen die hun één of ander werk kunnen verschaffen.
Om de arbeidersklassen te immobiliseren en te onderdrukken werden de vakbonden veranderd van vrije, strijdbare organisaties, geleid door personen die het vertrouwen van hun leden genoten, in politiebewakingsdiensten onder leiding van vertrouwelingen van de heersende groep, die slechts aan deze groep verantwoording verschuldigd zijn. Als in een dergelijk economisch systeem enigerlei verbetering wordt aangebracht, is dit alleen ingegeven door de behoeften van het militarisme, die, samen met de reactionaire aspiraties van de bevoorrechte klassen, geleid hebben tot het ontstaan en de consolidering van de totalitaire staten.
3) Tegenover het autoritaire dogmatisme werd de permanente waarde van de kritische geest gesteld. Alleen wat bewezen kan worden is waar. Aan deze onbevooroordeelde houding hebben wij de grootste verworvenheden van onze beschaving op alle gebieden te danken. Deze geestelijke vrijheid heeft de crisis, die de totalitaire staten heeft doen ontstaan, echter niet overleefd. Nieuwe dogma’s, die men gelovig of hypocriet moet aanvaarden, worden in alle takken der wetenschap opgedrongen.
Hoewel niemand weet wat een ras is en de meest elementaire historische kennis de absurditeit hiervan aantoont, eist men dat de fysiologen geloven, bewijzen en overtuigen dat sommigen tot een uitverkoren ras behoren, alleen omdat het imperialisme deze mythe nodig heeft om in de massa de haat en de hoogmoed te doen oplaaien. De meest voor de hand liggende opvattingen van de economische wetenschap moeten als ketterijen worden beschouwd om de autarkische politiek, het evenwichtige ruilverkeer en andere oude technieken van het mercantilisme als buitengewone ontdekkingen van onze tijd voor te stellen. Wegens de onderlinge economische afhankelijkheid van de verschillende delen van de wereld is de levensruimte van elk volk dat een moderne levensstandaard wil handhaven, gelijk aan de hele wereld; met de geopolitiek echter heeft men een pseudo-wetenschap in het leven geroepen die de juistheid van de theorie der levensruimten moet aantonen om een theoretische basis te vormen voor de onderdrukkingswil van het imperialisme. De geschiedenis wordt vervalst in het belang van de regerende klasse. Uit bibliotheken en boekwinkels worden alle werken geweerd die niet als orthodox worden beschouwd. De nevelen van het obscurantisme dreigen opnieuw de menselijke geest te verstikken. Zelfs de sociale ethiek van vrijheid en gelijkheid wordt ondermijnd. De mensen worden niet langer als vrije burgers beschouwd die van de staat gebruik maken om hun collectieve doelstellingen beter te verwezenlijken. Ze worden dienaars van de staat, die bepaalt welke doelstellingen ze moeten nastreven en als staatswil wordt steeds de wil beschouwd van diegenen die de macht in handen hebben. De mensen zijn niet langer rechtssubjecten, maar zijn hiërarchisch ingedeeld en moeten zonder mopperen gehoorzamen aan de overheid, die culmineert in de persoon van het vergoddelijkte staatshoofd. Het kastenstelsel herrijst machtiger dan ooit uit zijn as.
Deze reactionaire en totalitaire beschaving heeft, na een serie triomfen in andere landen, ten slotte in nazi-Duitsland een macht gevonden die zichzelf in staat achtte tot de uiterste consequenties van het systeem te gaan. Na een grondige voorbereiding begon Duitsland zijn onderdrukkingsveldtocht, waarbij het met veel durf en zonder scrupules uit de rivaliteit, het egoïsme en de stupiditeit van anderen munt sloeg, een aantal Europese vazalstaten, waaronder in de eerste plaats Italië, meesleurde en een verbond sloot met Japan, dat hetzelfde doel in Azië nastreefde. De overwinning van Duitsland zou de definitieve vestiging van het totalitaire regime in de wereld betekenen. Al zijn kenmerken zouden tot het uiterste worden opgedreven en de progressieve krachten zouden voor lange tijd tot het voeren van een louter negatieve oppositie gedoemd zijn.
De traditionele arrogantie en hardheid van het Duitse militaire milieu kan ons reeds een idee geven van het karakter van hun overheersing, indien zij de oorlog zouden winnen. Winnen de Duitsers de oorlog, dan kunnen ze zich zelfs een schijn van grootmoedigheid tegenover de andere Europese volkeren permitteren en hun grondgebied en politieke instellingen formeel respecteren, om te heersen zonder het idiote patriottische gevoel te krenken, dat belang hecht aan de kleur van de grenspalen en de nationaliteit van de politici die het toneel bevolken, in plaats van aan machtsverhoudingen en de werkelijke inhoud van de staatsorganen te denken. Maar ook gecamoufleerd zou de werkelijkheid toch hetzelfde blijven: een nieuwe indeling van de mensheid in Spartanen en Heloten.
Ook een compromis tussen de strijdende partijen zou een stap voorwaarts betekenen voor het totalitarisme, omdat alle landen die aan de Duitse wurggreep ontkomen waren, toch gedwongen zouden zijn dezelfde vorm van politieke organisatie aan te nemen om zich behoorlijk op een nieuwe oorlog voor te bereiden.
Terwijl Hitler-Duitsland de kleinere landen één voor één heeft kunnen verslaan, heeft zijn actie steeds sterkere krachten gedwongen in het strijdperk te treden. De verbetenheid van Groot-Brittannië, dat ook in het meest kritieke ogenblik tegenover de vijand overeind wist te blijven, heeft ertoe geleid dat de Duitsers op de dappere weerstand stootten van het Sovjetleger en gaf Amerika de tijd zijn onbeperkte productiemogelijkheden te mobiliseren. Deze strijd tegen het Duitse imperialisme is nauw verbonden met de strijd van het Chinese volk tegen het Japanse imperialisme.
Enorme aantallen mensen en enorme rijkdommen zijn reeds ingezet in de strijd tegen de totalitaire macht. Deze macht heeft nu haar toppunt bereikt en kan nog slechts langzaam afbrokkelen. De tegengestelde krachten zijn hun dieptepunt voorbij en gaan weer bergop.
De strijd van de geallieerden wekt elke dag meer het verlangen naar bevrijding op, ook in die landen die waren bezweken onder het geweld en die door deze verschrikkelijke klap de moed waren kwijtgeraakt. En uiteindelijk ontwaakt dat verlangen naar bevrijding zelfs bij de volkeren van de Asmogendheden, die nu beseffen dat ze in een hopeloze situatie zijn meegesleurd, alleen maar om de overheersingsdrift van hun leiders te bevredigen.
Het langzame proces waarin enorme mensenmassa’s zich passief door het nieuwe regime lieten beïnvloeden, zich ernaar schikten en het op die manier verstevigden, is tot stilstand gebracht; een tegengesteld proces is op gang gekomen. In deze enorme vloedgolf die langzaam omhoogstijgt, vinden we alle progressieve krachten terug, het verlichte deel van de arbeidersklasse dat zich niet door geweld en vleierij van zijn streven naar een hogere levensstijl heeft laten afbrengen; de meest bewuste intellectuelen die de minachting van de intelligentsia niet nemen; ondernemers die zich in staat voelen tot nieuwe initiatieven en die zich vrij willen maken van het bureaucratische juk en de nationale autarkie die hun elke bewegingsvrijheid ontnemen, en tenslotte al diegenen die zich door hun aangeboren gevoel van waardigheid niet kunnen plooien onder de vernedering van de slavernij.
Van al deze krachten verwachten wij vandaag de redding van onze beschaving.

II. Taken voor na de oorlog. De eenmaking van Europa

Dit de nederlaag van Duitsland zal niet automatisch de reorganisatie van Europa volgens ons beschavingsideaal voortspruiten. In de korte en intense periode van algemene crisis (waarin de nationale staten nog volledig verwoest en uitgeput zullen neerliggen, waarin de volksmassa’s angstig zullen wachten op nieuwe ordewoorden, zoals een gesmolten, gloeiende materie, gereed om in nieuwe vormen gegoten te worden en bereid om de leiding te aanvaarden van betrouwbare internationalisten) zullen de klassen die in de oude nationale regimes het meest geprivilegieerd waren, alles in het werk stellen om met verborgen middelen en met geweld de vloedgolf van internationalistische gevoelens in te dammen. Zij zullen alles doen om de oude nationale staatsinstellingen in ere te herstellen. En het is zelfs te voorspellen dat de Britse regeringskringen, wellicht in overleg met de Amerikanen, ostentatief zullen pogen dingen in deze richting te stuwen ten einde de oude evenwichtpolitiek tussen de mogendheden te doen herleven, met de bedoeling het schijnbare direkte imperiale eigenbelang te dienen.
De behoudende krachten, namelijk: zij die belangrijke functies bekleden in de centrale staatsinstellingen; de hogere legerleidingen met de koningshuizen, waar die nog bestaan, aan de top; de vertegenwoordigers van het monopoliekapitalisme die het lot van hun winsten aan dat van de staten verbonden hebben; de grootgrondbe zitters en de hoge kerkelijke hiërarchieën die alleen door een stabiele en conservatieve maatschappij hun parasitaire inkomsten verzekerd weten; in hun kielzog de ontelbare schare van hen afhankelijk is of verblind wordt door hun traditionele macht; en in hun gevolg worden al die reactionaire krachten al gewaar dat het gebouw in zijn voegen kraakt, en pogen zichzelf te redden. De ineenstorting zou hen alle zekerheden die ze tot dusver hadden, ontnemen en ze blootstellen aan de aanval van de progressieve krachten.
De revolutionaire situatie: oude en nieuwe stromingen
De val der totalitaire regimes zal voor hele volkeren, gevoelsmatig de komst van de “vrijheid” betekenen. Elke dwang zal verdwijnen en de vrijheid van meningsuiting en vereniging zal automatisch opnieuw heersen. Voor de democratische tendensen zal het een ware triomf zijn. Deze hebben talloze schakeringen, van erg conservatief liberalisme tot socialisme en anarchisme. Zij geloven aan de “spontane generatie” van gebeurtenissen en instellingen, aan het “absoluut goede” van de impulsen die uit de basis komen. Zij willen de “geschiedenis”, het “volk”, het “proletariaat” of hoe zij hun God anders noemen, geen geweld aandoen. Zij verlangen naar het einde van de dictaturen, dat volgens hen neerkomt op het herstel van het onvervreemdbaar recht voor elk volk op zelfbestemming. In hun dromen zien ze dit streven bekroond door de samenroeping van een grondwetgevende vergadering – verkozen met het meest algemene kiesrecht en met de grootst mogelijke eerbied voor de rechten van het kiezerskorps -: die vergadering beslist welke grondwet er zal komen. Is het volk nog niet rijp, dan zal het zichzelf een slechte grondwet geven. Verbetering daarvan mag echter alleen gebeuren door bestendig overtuigingswerk.
Democraten hebben geen principiële afkeer van geweld, maar zij willen er alleen gebruik van maken wanneer de meerderheid van de noodzaak ervan overtuigd is, wanneer met andere woorden de belangrijke dingen al vooraf geregeld zijn. In feite zijn democratische leiders alleen maar geschikt voor het dagelijks bestuur van instellingen, waarin ongeveer het hele volk volledig vertrouwen heeft, en waaraan niet veel moet worden veranderd. Dit wil dus zeggen in rustige tijden. In tijden van omwenteling daarentegen, wanneer de instellingen niet moeten worden bestuurd maar opgericht, slaan democraten een slecht figuur. De meelijwekkende onmacht van de democraten in de Russische, de Duitse en de Spaanse revolutie is hiervan een recent voorbeeld. Onder zulke omstandigheden, wanneer het oude staatsapparaat met zijn wetten en zijn administratie in elkaar stort, ontstaan onmiddellijk een groot aantal volksvergaderingen, die zich al dan niet met een schijn van oude legitimiteit tooien, waarin alle progressieve maatschappelijke krachten samenkomen om hun stem te laten horen. Het volk heeft wel steeds enkele fundamentele behoeften waaraan moet worden voldaan, maar het weet niet precies wat het wil en wat er gedaan moet worden. Het hoort duizend klokken luiden en met zijn miljoenen hoofden slaagt het er niet in één richting te kiezen. Tal van stromingen bestrijden elkaar.
Als het erop aankomt blijk te geven van vastberadenheid en moed, voelen de democraten zich ontredderd, omdat ze niet gestuwd worden door een spontane eensgezindheid van het volk, maar slechts door een wervelstorm van passies. Zij geloven dat het hun plicht is deze eensgezindheid tot stand te brengen en treden op als redenaars daar waar er behoefte is aan leiders die weten welke doelen bereikt moeten worden. Daarbij missen zij de kansen ter versteviging van het nieuwe stelsel door te pogen instellingen, die geschikt zijn voor normale tijden van relatieve rust en een lange aanloopperiode nodig hebben, onmiddellijk te doen functioneren. Zodoende geven zij hun tegenstanders wapens, die dezen gebruiken om ze te doen struikelen. In feite vertegenwoordigen zij in hun duizenden tendensen niet de wil te vernieuwen, maar de verwarde tegenstrijdigheden der geesten. Zij leggen elkaar lam en maken de weg vrij voor de terugkeer van de reactie. De democratische methode zal in de revolutionaire crisis een blok aan het been zijn.
Geleidelijk zullen de democraten met hun gezwets hun eerste populariteit als verdedigers van de vrijheid kwijtraken. Zij zullen alle serieuze kansen op politieke en sociale hervorming missen. De instellingen van het pre-totalitaire tijdperk zullen dan onvermijdelijk weer tot leven komen, de strijd zal weer verlopen volgens het oude schema van de klassenstrijd.
Het idee dat alle politieke problemen te herleiden zijn tot vormen van klassenstrijd, was een uitgangspunt voor de actie, vooral van de fabrieksarbeiders, en gaf inhoud aan de politieke strijd, zo lang het niet ging om de basisinstellingen van de maatschappij. Datzelfde beginsel isoleert echter het proletariaat wanneer het erop aankomt de maatschappijorganisatie zelf aan te pakken. De volgens de klassieke schema’s opgevoede arbeiders kennen dan alleen maar het eisenprogramma van hun eigen klasse, of zelfs van hun eigen beroepsgroep, zonder enig verband te leggen met de belangen van de andere onderdelen van de maatschappij. Of zij streven naar een eenzijdige dictatuur van het proletariaat om te komen tot een utopische collectivisatie van alle productiemiddelen, wat dan volgens de oude propaganda het wondermiddel moet zijn voor al hun kwalen. Zulk een politiek heeft op geen enkele laag der bevolking vat, behalve dan op de arbeiders zelf. Door deze politiek isoleert de arbeidersklasse zich en onthoudt zij haar steun aan de andere progressieve krachten in de maatschappij. Deze raken dan wellicht in de greep van de reactionaire milieus, die ze handig inzetten om de beweging van het proletariaat terug te drijven en neer te slaan.
Tussen de verschillende proletarische strekkingen, geïnspireerd door de klassenstrijd en het collectivistisch ideaal, hebben alleen de communisten begrepen hoe moeilijk het is te beschikken over voldoende krachten om de overwinning te behalen. Daarom hebben zij gekozen voor een streng gedisciplineerde beweging. Zij exploiteren de Russische mythe om de arbeiders te organiseren, maar laten zich niet door hen leiden en gebruiken ze voor de meest uiteenlopende manoeuvres.
Deze houding maakt de communisten in revolutionaire crisissituaties efficiënter dan de democraten. Ze houden echter de arbeidersklasse zoveel mogelijk gescheiden van de andere revolutionaire krachten – zeggend dat de “echte” revolutie nog moet komen – en vormen zodoende op de cruciale ogenblikken van de geschiedenis een sektarisch element dat het geheel verzwakt. Bovendien zijn zij volledig afhankelijk van de Russische staat die hen herhaaldelijk heeft gebruikt voor zijn nationale politieke doeleinden. Deze afhankelijkheid verhindert hen welke politiek dan ook met een minimum aan continuïteit te voeren. Ze moeten zich steeds verbergen achter een Karoly, een Blum, een Negrin, maar gaan dan ook vaak ten onder in gezelschap van hun democratische marionetten. De macht wordt immers niet veroverd en behouden door gebruik van listen en truckjes, maar door de bekwaamheid om op een organische en levensechte wijze te voldoen aan de noden van de moderne samenleving.
Indien de strijd morgen tot het traditionele nationale strijdperk beperkt blijft, zal het zeer moeilijk zijn de oude onoplosbare problemen te ontlopen. De nationale staten hebben immers hun respectieve economieën reeds zo diepgaand gepland, dat de zich opdringende vraag snel zou worden: welke belangengroep, welke klasse krijgt de touwtjes van het planbureau in handen? In elk geval zou het front van de progressieven, in de strijd tussen de klassen en de economische groepen, gemakkelijk uit elkaar geslagen worden. Zeer waarschijnlijk zouden de reactionaire milieus uit dit alles profijt trekken.
De werkelijke revolutionaire beweging zal moeten ontstaan door toedoen van hen die de moed hadden de oude politieke uitgangspunten aan kritiek te onderwerpen. Deze revolutionaire beweging zal moeten samenwerken met de democratische krachten, met de communisten en met al diegenen die het totalitarisme bevechten. Deze beweging mag zich echter niet laten verstrikken in geen van de politieke praktijken van de krachten waarmee ze samenwerkt.
De reactionaire krachten beschikken over handige jongens en kadermensen die leiding kunnen nemen. Deze zullen hardnekkig vechten voor het behoud van hun suprematie. Als het erop aankomt zullen ze zich vermommen als verdedigers van de vrijheid, van de vrede, van het volkswelzijn, van de armen. In het verleden reeds zagen we hoe ze binnendrongen in de volksbewegingen, hoe ze die lam legden, misleidden, en gebruikten ter verwezenlijking van hun eigen doelen. Dit zijn de meest te duchten krachten. Met hen zullen de progressieven eerst en vooral rekening moeten houden.
Het punt waarop deze conservatieve krachten hun hefboom zullen plaatsen, is het herstel van de eigen nationale staat. Zodoende zullen zij inhaken op het meest verspreide volksgevoel, dat in het recente verleden het sterkst is gekwetst en dat het gemakkelijkst voor reactionaire doeleinden kan worden gebruikt: de vaderlandsliefde. Op die manier kunnen zij ook hopen tamelijk gemakkelijk verwarring te scheppen in de geesten van hun tegenstanders. Voor de brede massa bestaat politiek tot dusver alleen in het nationale kader. Het is dan ook tamelijk gemakkelijk het volk en zijn meest kortzichtige leiders voor het herstel van de nationale staat na de oorlog te laten werken. Als deze opzet slaagt, zou de reactie het weer eens gehaald hebben. Uiterlijk zouden deze staten zelfs in ruime mate democratisch en socialistisch kunnen zijn, maar de terugkeer van de conservatieve elementen naar de commandoposten zou alleen nog een kwestie van tijd zijn. De nationale ijverzucht zou weer de kop opsteken en elke staat zou de garantie voor de vervulling van zijn eigen wensen opnieuw alleen vinden in zijn nationale strijdmacht. Na korte tijd zou de belangrijkste opdracht weer zijn: van de volkeren legers en van de burgers soldaten maken. De generaals zouden weer commanderen, de monopolisten weer profiteren van de autarkie, de bureaucraten hun belang opblazen en de priesters het volk kalm houden. Al wat onmiddellijk na de beëindiging van de vijandelijkheden bereikt werd, zou samenschrompelen in het licht van de noodzaak zich op nieuwe oorlogen voor te bereiden. Eén probleem moet eerst en vooral een oplossing vinden. Zonder deze oplossing is al de rest slechts schijnbare vooruitgang. Aan de verdeling van Europa in soevereine nationale staten moet definitief een einde gemaakt worden. De ineenstorting van het grootste gedeelte van de staten van het continent onder de Duitse wals heeft de Europese volkeren reeds lotsverbonden gemaakt. Ofwel zullen ze zich samen onderwerpen aan Hitlers heerschappij, ofwel zullen zij, na diens val, samen in een tijdperk van crisis en omwenteling treden, dat ze samen zullen beleven en niet elk voor zich, verstard in van elkaar gescheiden staatsstructuren. De geesten staan op dit ogenblik, veel meer dan in het verleden, open voor het idee van een federale reorganisatie van Europa. De pijnlijke ervaringen van de laatste decennia hebben zelfs de ogen van diegenen geopend die niet wilden zien en hebben voor de verwezenlijking van onze doelstellingen gunstige omstandigheden geschapen.
Alle met rede begaafde schepselen beginnen in te zien dat het onmogelijk is een evenwicht te handhaven tussen onafhankelijke Europese Staten, waartoe ook, met gelijke rechten, het militaristische Duitsland zou behoren. Ook is het onmogelijk Duitsland in stukken te hakken en na de nederlaag volkomen in bedwang te houden. In de praktijk is duidelijk gebleken dat geen enkel Europees land zich afzijdig kan houden terwijl de anderen oorlog voeren; neutraliteitsverklaringen en niet-aanvalspakten zijn niets dan dode letters. Duidelijk is bewezen hoe nutteloos, ja verderfelijk organisaties zijn als de Volkenbond, die, zonder te beschikken over een bovennationale legermacht, die beslissingen kon doen naleven, toch beweerde internationale rechtsorde te verzekeren en gelijktijdig de absolute soevereiniteit der lidstaten te kunnen eerbiedigen. Absurd is ook de regel gebleken die verbiedt tussen beiden te komen in de interne aangelegenheden van soevereine staten. Volgens dit beginsel zou elk volk in volle vrijheid de dictatuur mogen kiezen waaraan het de voorkeur geeft, alsof het interne bestel van elke staat niet van vitaal belang is voor alle andere Europese landen. Onoplosbaar zijn de vele problemen de overbjiende landen immers also hum tradizionali geworden die het internationale politieke leven van ons continent vergiftigen – vastlegging van grenzen in gebieden met gemengde bevolking, verdediging van etnische minderheden, recht op uitweg naar zee voor landen zonder kuststrook, de Balkankwestie, het Ierse vraagstuk enz.– en die in een Europees federaal verband een oplossing zouden kunnen vinden, zoals in het verleden de problemen tussen de vele staatjes hun scherpte verloren toen deze opgenomen werden in de ruimere natiestaten en hun oude twisten nog slechts spanningen tussen provincies werden.
Aan de andere kant zijn er een aantal omstandigheden die de oprichting in de hand werken van een federaal stelsel dat een einde kan maken aan de huidige anarchie: het einde van het onbeperkte gevoel van veiligheid van Groot-Brittannië dat de Engelsen hun “splendid isolation” deed verkiezen, het uiteenvallen van het leger van de Franse republiek bij het eerste ernstige treffen met de Duitse legermacht (laten we maar hopen dat hierdoor de chauvinistische overtuiging van de absolute Gallische superioriteit eindelijk een deuk krijgt), en vooral het bewustzijn van het grote gevaar der algemene slavernij. Ook het principieel aanvaarden van de Indische onafhankelijkheid door Groot-Brittannië en het feit dat Frankrijk door zijn nederlaag praktisch zijn imperium verloren heeft, maken het gemakkelijker een regeling te vinden voor de Europese kolonies.
Daarbij komt nog het wegvallen van enkele van de belangrijkste Europese dynastieën en de broosheid van de grondvesten waarop de overblijvende berusten. De vorstenhuizen beschouwden de verschillende landen immers als hun traditionele erfdeel; samen met de belangen die zij steunden, vormden zij een aanzienlijke hindernis voor een rationele organisatie van de Verenigde Staten van Europa, die eigenlijk slechts kunnen rusten op de republikeinse staatsinrichting van alle gefedereerde staten. Alhoewel het mogelijk is nu reeds verder te kijken dan de horizont van dit Oude Continent en te denken aan het lot van alle volkeren en de toekomst van heel de mensheid, moet de Europese Federatie toch in een beginstadium instaan voor vredelievende betrekkingen met Amerika en Azië. In afwachting van de politieke eenheid van de wereld kan alleen Europa zorgen voor vrede en samenwerking.
De scheidingslijn tussen progressieve en reactionaire krachten is niet meer die tussen de groepen die zich meer of minder democratisch opstellen, meer of minder socialistisch ageren, maar wel die tussen diegenen die nog steeds geloven dat het doel van hun politieke strijd de verovering moet zijn van de macht in de nationale staat (en die, zij het dan wellicht zonder opzet, het spel spelen van de reactie, door het lava van de gloeiende passies te laten stollen in de oude smeltpotten en de oude absurditeiten opnieuw te laten opflakkeren) en diegenen die geloven dat hun actie gericht moet zijn op het bouwen van een internationale staat, naar welk doel zij het volk willen doen streven en waarvoor zij zelfs de nationale macht willen gebruiken na deze heroverd te hebben.
Door propaganda en actie moeten wij stevige banden smeden tussen de bewegingen die in de verschillende landen zullen ontstaan. Het zal van nu af aan zaak zijn de fundamenten te leggen van een beweging die in staat is alle krachten te mobiliseren om een nieuw bestel te vormen dat voor Europa de meest grandioze en de meest vernieuwende schepping zal zijn sinds eeuwen; om een solide federale staat op te richten die beschikt over één Europese legermacht die in de plaats treedt van de nationale legers; om krachtdadig de economische autarkieën, ruggensteun der totalitaire regimes, door te breken; om over voldoende organen en actiemiddelen te beschikken om in de verschillende gefedereerd staten zijn beschikkingen te laten uitvoeren en de federale wetten te doen naleven. Ook al blijven de deelstaten beschikken over voldoende autonomie om aan hun instellingen eigen vormen te geven en om een politiek leven te leiden in overeenstemming met de eigenheden van de betrokken volksgemeenschappen.
Indien er in de belangrijkste Europese landen voldoende mensen gevonden worden die dit alles begrijpen, zal de overwinning in korte tijd binnen hun bereik zijn. De omstandigheden en de geestesgesteldheid van de massa zullen hun behulpzaam zijn. Zij zullen tegenover partijen en strekkingen staan die in de laatste twintig onheilvolle jaren blijk gegeven hebben van onbekwaamheid. Nu komt de tijd om nieuwe taken aan te vatten en dit zal gedaan moeten worden door nieuwe mensen: door de BEWEGING VOOR EEN VRIJ EN VERENIGD EUROPA.

III.Taken voor na de oorlog. De hervorming van de maatschappij

Een Vrij en Verenigd Europa is het onontbeerlijke uitgangspunt voor de vooruitgang van de moderne beschaving. Na de stilstand van de totalitaire periode zal de evolutie een verdere afbouw van het sociale onrecht en van de privilegies met zich meebrengen. Alle oude conservatieve instellingen zullen ineenstorten. Met moed en beslistheid moet van deze crisistoestand gebruik gemaakt worden.
Om aan onze verwachtingen te beantwoorden zal de Europese revolutie socialistisch moeten zijn. Het doel zal zijn de bevrijding van de werkende klassen en de verwezenlijking van meer menselijke levensvoorwaarden. Het zuiver doctrinaire principe dat het privaatbezit van productiemiddelen moet worden afgeschaft of slechts voorlopig toegelaten, kan echter niet richtinggevend zijn voor de te treffen maatregelen. De algemene verstaatsing van de economie was inderdaad het eerste utopische idee waarvan de arbeiders verwachtten dat ze de bevrijding zou betekenen van het kapitalistische juk. De totale etatisering laat echter geen droom werkelijkheid worden, maar wel een stelsel waarin heel de bevolking onderworpen is aan de beperkte groep bureaucraten die de economie dirigeren. Het ware basisbeginsel van het socialisme – en hiervan is het idee van de algemene collectivisatie slechts een haastige en verkeerde afleiding – zegt dat de economische krachten de mens niet moeten domineren maar – zoals dit ook geldt voor de krachten van de natuur – dat de mens de economie moet leiden, onder controle houden en op de meest rationale manier moet beheersen om te vermijden dat de arbeidersmassa er het slachtoffer van wordt. De gigantische krachten van de vooruitgang, ontspruitend uit het persoonlijk belang, mogen niet wegsterven in de kanalen van de routine met als gevolg dat we dan de zin voor initiatief en de ondernemingslust opnieuw moeten opwekken met loondifferentiaties en andere dergelijke maatregelen. Deze krachten moeten integendeel aangemoedigd worden, ze moeten tot ontwikkeling kunnen komen en meer gebruikt worden. Gelijktijdig moeten deze krachten echter stevig ingedijkt worden ten einde misbruiken te vermijden en ze te laten ageren in het belang van de hele gemeenschap.
Het privaat bezit moet afgeschaft, beperkt, aangepast en uitgebreid worden naargelang het geval en niet volgens een dogmatisch beginsel. Deze politiek moet zich situeren in het proces dat leidt naar een Europese economische samenleving, eindelijk bevrijd van de nationale militaristische en bureaucratische nachtmerries. Redelijke oplossingen moeten ook in het bewustzijn der arbeiders de overhand hebben op het irrationele. We willen zo genuanceerd en gedetailleerd mogelijk de inhoud geven van de te volgen richtlijnen, er op wijzend dat elk punt van het programma moet worden bekeken in relatie tot het noodzakelijk te verwezenlijken doel, nl. de Europese eenheid. We beschouwen de volgende punten als belangrijk:
a) Aan particulieren mag niet het beheer overgelaten worden van ondernemingen die een activiteit van monopolistische aard ontwikkelen en dus in staat zijn de verbruikers uit te buiten, zoals bijvoorbeeld de elektriciteitsondernemingen; ondernemingen die in het leven gehouden worden in het belang van de gemeenschap maar die beschermd moeten worden door douanetarieven, staatssubsidies en gunstopdrachten (een mooi voorbeeld hiervan is de Italiaanse metaalindustrie); ondernemingen die wegens de geïnvesteerde kapitalen het aantal mensen dat ze tewerkstellen en de domeinen die ze beheersen in staat zijn druk uit te oefenen op de staatsinstellingen en een politiek op te dringen die hun het gunstigst is (voorbeeld: de kolenmijnen, de grote banken, de grote rederijen). Op deze gebieden zal er grootscheeps genationaliseerd moeten worden en dit zonder enig respect voor verworven rechten.
b) Het eigendomsrecht en het erfrecht met hun bijzondere kenmerken hebben ervoor gezorgd dat de rijkdommen terechtkwamen in de handen van een beperkte groep geprivilegieerden. Deze opgehoopte rijkdommen moeten in de revolutionaire crisisperiode verdeeld worden. Die parasitaire standen moeten worden uitgeschakeld. Aan de werkenden moeten de productiemiddelen ter hand gesteld worden die ze nodig hebben om hun economische positie te verbeteren en een meer onafhankelijk leven te kunnen leiden. Hierbij denken we aan een landbouwhervorming waardoor de bewerkers van het land er ook eigenaar van worden een waardoor het aantal grondbezitters enorm zal toenemen, alsook aan een industriële hervorming waardoor het eigendomsrecht van de werkers uitgebreid wordt tot de niet-geëtatiseerde bedrijven, door oprichting van coöperaties, door de arbeider tot aandeelhouder te maken, enz.
c) De jongeren moeten geholpen worden door de invoering van regelingen die startsituaties voor iedereen zo gelijk mogelijk maken. Vooral de openbare school zal aan de bekwaamsten, en niet aan de rijksten, de mogelijkheid moeten geven hogere studies te volgen. In elke studievak zal zij mensen moeten vormen voor de uitoefening van de verschillende vrije en andere beroepen. Daarbij zal ervoor gezorgd moeten worden dat het aantal afgestudeerden per vakgebied de vraag niet overtreft. De gemiddelde financiële vergoedingen moeten dan in de verschillende beroepsgroepen ongeveer gelijk zijn, alhoewel er zich binnen de groepen verschillen kunnen voordoen naargelang van de individuele bekwaamheden.
d) Door de bijna onbeperkte mogelijkheden van de massaproductie kan aan eenieder het levensnoodzakelijke: voedsel, huisvesting en kleding, verstrekt worden. Tegen een relatief lage kostprijs kan elke burger genieten van het comfort dat met de menselijke waardigheid overeenstemt. De solidariteit met diegenen die het er in de economische strijd minder goed afbrengen, mag geen charitatieve vormen aannemen. Deze houding heeft steeds iets vernederends in zich en baart meestal de kwalen waarvan ze de gevolgen wil wegwerken. Er moeten, integendeel, voorzieningen getroffen worden ten einde aan allen, of ze kunnen werken of niet, onvoorwaardelijk een behoorlijke levensstandaard te geven. Daardoor mag echter de prikkel tot werken en sparen niet verdwijnen. Op deze wijze zal niemand meer door ellende gedwongen zijn vernederende arbeidsvoorwaarden te aanvaarden.
e) De bevrijding van de werkende klassen is alleen mogelijk als de hierboven aangehaalde punten worden verwezenlijkt. De arbeidersklasse mag niet opnieuw in de greep geraken van de economische politiek van de monopolistische vakbonden, die eenvoudigweg de onderdrukkingsmethoden van het grootkapitaal gebruiken op het niveau van de arbeiders. De werkers moeten vrij kunnen kiezen wie er in hun naam collectieve arbeidsovereenkomsten sluit. De staat zal vervolgens moeten waken over de naleving van de bepalingen van deze overeenkomsten. Alle monopolistische tendensen zullen kunnen worden bestreden zodra bovengenoemde sociale hervormingen plaatsgehad hebben.
Dat zijn de veranderingen die nodig zijn om de brede lagen van de bevolking te winnen voor het nieuwe stelsel en om het in stand te houden met de steun van de burgers. Deze veranderingen zullen aan het politieke leven een op de vrijheid gevestigde grondslag geven, doordrongen van een sterk gevoel van sociale solidariteit. Op zo’n basis kunnen de politieke vrijheden een echte en niet alleen formele inhoud krijgen voor allen. Elke burger zal beschikken over voldoende onafhankelijkheid en kennis om bestendig en doeltreffend toezicht uit te oefenen op de heersende klasse.
Het zou overbodig zijn uit te wijden over de grondwettelijke instellingen omdat we ook niet kunnen voorzien in welke omstandigheden ze tot stand zullen komen en zullen functioneren. We zouden dus slechts kunnen herhalen wat iedereen weet betreffende de noodzaak van vertegenwoordigende organen en wetgevende procedures, de nodige onafhankelijkheid van de magistratuur die in de plaats zal treden van die welke we nu kennen en die de wetten onpartijdig zal toepassen, betreffende de persvrijheid en de vrijheid van vereniging die het mogelijk moeten maken de publieke opinie voor te lichten en de kans te geven daadwerkelijk deel te nemen aan het politieke leven van de staat. Alleen op twee punten moeten we even nader ingaan. Het gaat om aangelegenheden van uitzonderlijk belang voor ons land: de relatie tussen kerk en staat en de aard van de politieke vertegenwoordiging:
a) Het concordaat dat het Vaticaan in Italië gesloten heeft met het fascisme moet ongetwijfeld verbroken worden om het zuiver burgerlijk karakter van de staat te bevestigen. Door dit verbreken moet ondubbelzinnig tot uiting komen dat de Staat in het burgerlijk leven de overhand heeft. Alle religieuze belijdenissen moeten gelijk geëerbiedigd worden. De Staat mag echter geen begroting voor de erediensten meer hebben.
b) Het corporatistische kaartenhuisje van het fascisme zal in elkaar storten zoals ook de andere instellingen van de totalitaire staat. Er zijn er die geloven dat men morgen uit de puinhopen een nieuwe grondwet kan fabriceren. Wij niet. In de totalitaire staten zijn de corporatieve lichamen een handig middel om de arbeiders onder controle te houden. Zelfs indien de corporatieve kamers het eerlijke spiegelbeeld zouden zijn van de verschillende soorten producenten en het representatieve orgaan van de verschillende beroepsgroepen, dan zouden ze nog niet gekwalificeerd zijn om algemeen politieke aangelegenheden te behandelen. In zuiver economische kwesties zouden ze ook dan alleen dienen om de machtigsten toe te laten de anderen te domineren. De vakverenigingen zullen op vele wijzen moeten samenwerken met de staatsorganen die belast zijn met het oplossen van de problemen die hen aanbelangen. Wetgevende taken mogen hun echter in geen geval worden toevertrouwd, want daaruit zou een feodale anarchie van het economische leven voortspruiten, wat uiteindelijk zou uitmonden in een nieuw politiek despotisme. Velen die zich domweg lieten vangen door de mythe van het corporatisme, zullen aan de vernieuwing kunnen en moeten meewerken; ze zullen echter moeten inzien dat ze in hun wazige dromen een absurde oplossing hebben nagestreefd. Corporatisme kan slechts in totalitaire staten concreet tot stand komen, om de arbeiders in de pas te laten lopen en om hen voortdurend in het oog te laten houden door een aantal ambtenaren die ten dienste staan van de heersende klasse.
Onze revolutionaire partij mag niet op het beslissende moment op een geïmproviseerde wijze in het leven geroepen worden. Nu reeds moet zij beginnen gestalte aan te nemen door het vastleggen van haar fundamentele opties, door het uitbouwen van de leidende groepen en door het geven van de eerste richtlijnen voor de werking. Deze partij mag geen samenraapsel zijn van alle mogelijke strekkingen die zich slechts verbonden voelen in hun afwijzing van het fascisme en die na de val van het totalitaire regime onmiddellijk in alle richtingen uiteen zullen zwermen. Onze revolutionaire partij gaat ervan uit dat het eigenlijke werk pas na de verwachte val zal beginnen. Daarom moet zij bestaan uit mensen die het eens zijn over de oplossing die in de toekomst gegeven moet worden aan alle belangrijke problemen.
Met haar stelselmatige propaganda moet de partij overal doordringen waar mensen door het huidige regime verdrukt worden. Overal moet zij inhaken op de problemen die door de individuen en de groepen als het meest pijnlijk aangevoeld worden, om aan te tonen hoe deze problemen verband houden met andere problemen en wat een echte oplossing ervoor kan zijn. Uit het groeiende aantal sympathisanten mogen alleen diegenen tot de eingenlijke organisatie zelf toetreden die van de Europese revolutie hun levensdoel maken, die tuchtvol, dag na dag, het werk doen, die waken over zijn veiligheid en doeltreffendheid zelfs in de hardste omstandigheden van de strijd in de illegaliteit. Zij zullen het netwerk vormen dat de meer labiele groep van sympathisanten bij elkaar houdt.
Alhoewel geen enkele propagandamogelijkheid mag worden verwaarloosd, moet toch in eerste instantie contact gezocht worden met de milieus die in aanmerking komen als centrum voor de verspreiding van ideeën en de rekrutering van strijdvaardige mensen, vooral dan de twee sociale groepen die vandaag het meest gevoelig zijn voor hetgeen gebeurt en die morgen de doorslag zullen geven: de arbeiders en de intellectuelen. De eersten hebben zich het minst aan het totalitarisme onderworpen en zullen ook het vlugst de eigen rangen weer organiseren. De intellectuelen, en vooral de jongeren onder hen, lijden het meest onder de geestelijke verdrukking en walgen van het despotisme. Ook andere milieus zullen zich geleidelijk tot de algemene beweging aangetrokken voelen.
Iedere beweging die er niet in slaagt deze krachten te verenigen, zal steriel blijven. Indien de beweging alleen uit intellectuelen bestaat, zal ze niet over de massale kracht beschikken om de weerstand van de reactie te overwinnen. Ze zal de arbeiders wantrouwen en door hen gewantrouwd worden. Zelfs wanneer de beweging bezield is met democratische gevoelens, zal zij toch, staande voor de moeilijkheden, de neiging vertonen alle andere bevolkingsgroepen te mobiliseren tegen de arbeidersklasse, met andere woorden het fascisme te herstellen. Wanneer de beweging alleen zou steunen op het proletariaat, zou de helderheid van denken ontbreken, die alleen van de intellectuelen kan komen e die onontbeerlijk is om duidelijk in te zien wat moet worden gedaan en welke wegen moeten worden gevolgd. De beweging zou de gevangene blijven van de oude klassenstrijdtheorie, ze zou overal vijanden ontwaren en afglijden naar de doctrinaire communistische oplossing.
In de revolutionaire crisis zal deze beweging de progressieve krachten moeten organiseren en leiden. Ze zal daarbij gebruik moeten maken van alle volkse organen en formaties die in zulke ogenblikken spontaan tot stand komen en die, net als in een smeltkroes, zich in de revolutionaire massa’s zullen laten opgaan, niet om een plebisciet uit te spreken maar om geleid te worden. Deze beweging zal inzichten over wat gedaan moet worden zeker niet verwerven door een voorafgaande goedkeuring door de nog niet bestaande volkswil, maar door het bewustzijn de werkelijke noden van de moderne maatschappij te vertegenwoordigen. Aldus zal zij de eerste richtlijnen voor de nieuwe orde geven, de nieuwe stelregels voor de nog in verwarring verkerende menigten. Door deze dictatuur van de revolutionaire partij wordt het nieuwe staatsbestel opgericht en daar omheen de ware nieuwe democratie.
Er bestaat geen gevaar dat dit revolutionaire regime noodzakelijkerwijs zal uitmonden in een nieuwe despotisme. Dit zou gebeuren wanneer de revolutie een slavenmaatschappij zou voortbrengen. Als echter de revolutionaire partij vanaf het begin met sterke hand de voorwaarden voor een vrij bestaan schept, waarin alle burgers werkelijk aan het openbare leven kunnen deelnemen, zal de evolutie, zij het met enkele kleinere politieke crisissen, gaan in de richting van een geleidelijk begrijpen en aanvaarden door allen van de nieuwe orde, en dus in de richting van betere mogelijkheden voor de werking van vrije politieke instellingen.
Vandaag moeten de oude lasten worden afgeworpen, moeten we openstaan voor het nieuwe dat komt – zo anders dan we het hadden verwacht -; bij de ouderen de onbekwamen opzijzetten en bij de jongeren nieuwe energie opwekken. Vandaag zoeken en ontmoeten elkaar diegenen die het patroon van de toekomst weven, die de redenen voor de huidige crisis van de Europese beschaving hebben onderkend en die daarom het erfdeel dragen van al die bewegingen die naar menselijke verheffing hebben gestreefd maar ten onder zijn gegaan door onbegrip voor het te bereiken doel of van de daartoe aan te wenden middelen.
De af te leggen weg is niet gemakkelijk, noch veilig. Maar hij moet – en zal – afgelegd worden!
Altiero Spinelli – Ernesto Rossi

 

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Tramite il gruppo civico Cambiare partecipo ad un progetto di rinnovamento della classe politica di Ferentino. Con questo sito internet cerco di informare e creare una discussione trasparente circa le scelte operate dall'amministrazione comunale.   Lavoro in architettura e restauro, progettando e realizzando ambienti, strutture, arredi ed oggetti tramite la mia azienda, Fornaci Giorgi, che produce pavimenti, rivestimenti ed elementi architettonici in cotto fatto a mano.   Mi interesso di arti visive, interfacce uomo macchina, applicazioni internet. Ho il pollice verde ed amo mia moglie Domitilla e nostra figlia Charlotte.   In passato ho collaborato con Wikipedia, Ubuntu, Live Performers Meeting, Il Cartello per la promozione e diffusione delle arti, Greenpeace, Festival Arrivano i Corti, Il Giardino delle Rose Blu, Il Gabbiano.



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